[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#f9ba27″ class=”” size=””]Al netto della trasparenza delle premesse e della comunicazione pubblicitaria Godzilla II – King of the Monsters fa una scelta di organizzazione narrativa incoerente: sposta l’epica del combattimento tra mostri in secondo piano, sullo sfondo, per mettere al centro del proprio racconto il dramma di una famiglia americana divisa dopo un grave lutto, provando a comunicare la proporzione gigantesca della crisi emozionale mediante l’uso di una cornice composta da esponenti di misura gigantesca.[/perfectpullquote]
È una mossa che il film non nasconde mai e anzi calca a più riprese tutto l’arco drammaturgico; il racconto inizia con un confronto madre-figlia, si sviluppa prima come un’avventura di ricomposizione famigliare guidata da un padre assente, poi come un lento collassare delle verità e infine come una rincorsa al salvataggio del mondo, privato e pubblico: tutto nella cornice atmosferica – popolata da grandi titani e mostri risvegliati, ecoterroristi e scienziati innamorati della biodiversità – di una gigantografia sempre forzatamente controllata dall’inquadratura al fine della metaforizzazione per misure menzionata sopra, e quindi mai liberata, mai espansa, mai avvincente.
Questa decisione influenza l’impianto formale del film di Michael Dougherty, che è ragionato proprio per enfatizzare il valore drammaturgico della miniatura mediante il confronto tra grande e piccolo e attraverso uniche sequenze che abbracciano, seguendo da vicino soprattutto piccoli eventi umani, fughe di persone inermi dai disastri devastanti provocati dai titani. Il film cerca di informare lo spettacolo con un senso sentimentale pregnante più che continuare la linea astratta del lavoro organizzato da Edwards nel precedente capitolo sulla paesaggistica apocalittica. Il tentativo è di umanizzare l’avventura distruttiva, curando messa in scena e ordine narrativo in modo tale da raccontare in ogni verso l’umanità: manca però la capacità di addentrarsi davvero in questo corridoio interpretativo (di per sé forse più scontato della esaltante tavola de-umanizzata di Edwards ma comunque dignitosamente riflessivo), usando tutti gli elementi come veicoli di senso.
Né la caratterizzazione dei personaggi (interpretati da Chandler, Farmiga e Bobby Brown) nello schema tematico della famiglia spezzata né quella dei mostri – Godzilla, ma anche l’antagonista Ghidorah – nell’ordine del confronto manicheo (specificato addirittura da una fotografia interessata ai colori netti e all’assenza di ambiguità) né la riflessione sull’ambiente e i danni provocati dall’uomo funzionano: la prima dovrebbe occuparsi di ragionare sulla ricorsività degli errori, sugli insegnamenti sbagliati e sul futuro delle eredità e invece è massacrata in virtù di scolpi di scena immotivati; la seconda è solo accennata ma mai davvero messa a fuoco; la terza, importantissima, è inserita quasi come un intercalare necessario alle motivazioni di un personaggio annullato dagli sbandamenti della scrittura. A causa della volontà di intraprendere un progetto e della conseguente incapacità di saperlo condurre l’impianto narrativo costruito per raccontare allo stesso tempo e in parallelo la devastante lotta tra titani e la crisi di una famiglia legata al dramma si affloscia in un rumore che si arrende a se stesso e si autofagocita.