Nuovo rapimento nell’universo strampalato e indifferente dei fratelli Coen. Dopo le peripezie cartunesche di “Arizona Junior”, le nevi di “Fargo” e la Los Angeles lisergica del “Grande Lebowski”, stavolta il fattaccio avviene nella Hollywood conservatrice del 1951 e a farne le spese è un attorone coi sandaloni di nome Baird Whitlock (Clooney), star della produzione eponima del film il cui sottotitolo recita: A Tale of the Christ. Guarda caso come “Ben Hur”. E guarda caso, il film si apre proprio sul crocifisso (piano americano da sotto, poi dissolvenza incrociata sul primo piano) appeso nella chiesa dove il protagonista Eddie Mannix (Josh Brolin), produttore che risolve i problemi, si confessa a frequenza giornaliera mettendosi in croce per aver mentito alla moglie sul fumo, visto che non riesce a smettere. Una delle tante (troppe?) sottotrame che innervano un film ricchissimo, pienamente coeniano, ambizioso nel trattare anche temi morali e religiosi (senza tuttavia raggiungere i livelli di “A Serious Man”) ma, va detto subito, meno travolgente del previsto.
Il vero tema è l’ambientazione: cosa ci si può aspettare dalla Hollywood dei primi anni Cinquanta? La risposta è Esther Williams, Carmen Miranda, kolossal à la DeMille, rom com sofisticate, western sgarrupati e canterini, musical coi marinai e, sullo sfondo, la bomba H e i comunisti, i comunisti che non ti aspetti. Dal punto di vista della ripresa parodica dei generi, i Coen regalano momenti impagabili. Scarlett Johansson è la regina della piscina in una lunga sequenza ricalcata paro paro su “La ninfa degli antipodi”; Alden Ehrenreich è superlativo nei panni di un attorucolo-stuntman che gli studios, per rifrescarne l’immagine, mettono nelle mani di un regista à la Mankiewicz (Ralph Fiennes); Channing Tatum vestito da marinaretto è protagonista di un numero danzante che sembra uscito da “Un giorno a New York”. Quanto a Clooney, gli spezzoni spada e sandaloni sono più tromboni e demilliani che mai, con un inserto – involontariamente – pasoliniano quando al cristo in croce viene chiesto se è una comparsa o un attore principale, in modo da regolarsi col catering.
Hail, Caesar! gioca la carta del filmone d’autore all-star in stile “Gran Budapest Hotel”, ma ricorda piuttosto “1941” di Spielberg – un paragone non così azzardato se si pensa da un alto alla recente, proficua collaborazione per il “Ponte delle spie”, dall’altro alle rispettive ambientazioni storiche (l’America in guerra del 1941, l’America maccartista del 1951) e all’impostazione corale. Non si tratta, beninteso, di una buona notizia. Come il vecchio flop spielberghiano, anche Ave, Cesare! fa ridere molto meno del previsto e ha a volte l’aria di una carrellata di facce note che scompaiono alla svelta. Un amalgama poco armonico scaturito da una sceneggiatura spuntata, che regala dettagli ipnotici (primo fra tutti il lazo sguainato dall’attore cowboy) ma fallisce sul piano della costruzione e della suspense.
La fotografia di Roger Deakins è comunque una gioia per gli occhi, così come lo sono per le orecchie alcuni dialoghi esilaranti, soprattutto quello tra Mannix e i rappresentanti delle varie religioni convocati negli studi della Capitol per testare la credibilità del soggetto «cristologico». Da manuale, ovviamente, le risposte del rabbino. Infine, da non perdere la voce narrante di Michael Gambon, anch’essa nell’alveo della migliore tradizione coeniana.
Hail Caesar!, uno di quei film dei Coen un po’ così. Gli ingredienti ci sono tutti, compreso il ritorno dalle parti di “Barton Fink”, ma la pozione fa puf – una nuvoletta verde.