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Halloween ends di David Gordon Green: recensione

Con tutti i riferimenti desunti dall'universo carpenteriano nella forma apparente dell'omaggio, Green applica in realtà una sintassi cormaniana basata sulla variazione nella ripetizione. Halloween Ends accoglie in pieno questo movimento per diventare una potente e a tratti brutale rappresentazione del male attraverso l'ecologia del delitto intesa come funzione di relazione tra individui, ambienti e movimenti

È ricco di indizi e spunti di lettura il franchise di David Gordon Green prodotto da Akkad/Blum con la spinta esecutiva di John Carpenter e Jamie Lee Curtis. I livelli sono molteplici e al netto delle esche disseminate in gran quantità per il gusto cinefilo da easter egg, attivano alcuni percorsi analitici possibili, interni ed esterni al corpus filmografico del regista di Little Rock.
L’identità autoriale emerge chiaramente dalla necessità di introdurre una qualità politica ben distinta in tutti gli episodi della serie, dall’energia matrilineare che anima il primo titolo, fino alla rilettura del Faulkner più viscerale in Halloween Kills, quello di Dry September e The sound and the fury, che gli ha permesso di recuperare il cinismo e la lucidità antropologica di Shotgun Stories, nel racconto di una tragedia famigliare che in questo caso diventa collettiva.

Con tutti i riferimenti desunti dall’universo carpenteriano nella forma apparente dell’omaggio, Green applica in realtà una sintassi cormaniana basata sulla variazione nella ripetizione, allontanandosi dalla dimensione lirica di Rob Zombie e dal suo cinema rituale. Similarità dei luoghi, degli oggetti, dei set anche a distanza di decenni e allo stesso tempo capacità combinatoria di investire i riferimenti di nuova luce, marginalizzando progressivamente alcuni elementi centrali nel lungo percorso della saga, dove la retorica della maschera viene soppiantata dalla trasmissione del gesto.

Halloween Ends accoglie in pieno questo movimento per diventare una potente e a tratti brutale rappresentazione del male attraverso l’ecologia del delitto intesa come funzione di relazione tra individui, ambienti e movimenti. Intenzione maligna e casualità dell’azione, a partire dall’incipit che cannibalizza, parodiandolo, quello del primo Halloween del 1978, generano un effetto continuamente rovesciato nella soggettiva che procede dall’occhio del carnefice verso il corpo osservato della vittima.

La seduzione del male attrae nel proprio cono d’ombra l’outsider in cerca di riscatto, con tutti i dichiaratissimi riferimenti a Christine di John Carpenter. Corey Cunningham condivide con Arnie Cunningham, oltre al cognome, una vaga somiglianza somatica, la passione per i motori, lo spazio della mutazione psichica che dai margini della società lo eleva nella posizione del ribelle, pronto a radere al suolo una comunità nociva, razzista e ancorata al simulacro della famiglia tradizionale.

Su questa stessa linea, Allyson, la nipote di Laurie Strode, con la spinta violenta ad uscire dal solco della tradizione e dai meccanismi ereditari, anche quelli strettamente mitopoietici.

Mine piazzate nel cuore della narrazione che confinano Michael Myers in un luogo secluso, condiviso con la condizione di un homeless, ormai stanco e con la maschera quasi scollata dal volto, capace di esercitare la propria forza solo per propagazione.

Il contagio è allora il motore principale del film, invece della motocicletta di Corey, decisamente meno centrale di una Plymouth fine cinquanta che ci mostrava la morfologia caotica del tempo, furia fuori dai cardini della memoria. Quell’espressione del male around the clock, riemerge nell’energia negativa del rock’n’roll, con la sua carica generazionale colma di dolore. Dopo un gesto di ferocia punk, la lingua mozzata del Dj gira sul piatto insieme ad un classico dei Cramps. Quel somebody stop this pain, teenage angst di una creatura tra l’uomo e il lupo che assorbe i mali del mondo, abita una linea mutante che segue solo in parte i processi della riscrittura, fino all’epilogo in cui il male viene distrutto da un trituratore industriale.

ll contenitore è più ampio e sin dai titoli di testa allude ad una cornice che si sfalda, nella generazione di nuove forme. La zucca che riproduce se stessa mimando un processo di partenogenesi parassitaria, segue un frammento da The Thing, guardato da Corey nella sua prima e ultima nottata come baby sitter. Nel gioco di rimandi tra Hawks e Carpenter, che ovviamente recupera la serata televisiva originale di Laurie e Tommy, poco prima del massacro, Green sceglie di percorrere la via della mutazione attraverso la trasmissibilità del gesto violento.

Più della narrazione letteraria affidata a Laurie, che scrive il racconto a ritroso e cambia più volte il concetto di male interiore, è la sconnessione tra gesto e intenzionalità che muove le azioni dei personaggi, nell’esercizio della violenza sul labile confine tra desiderio e volontà. Una riflessione certamente politica, perché mentre stride con un’immagine del crimine e della colpa ormai affidata ai processi preventivi e illegali comminati dalle arene televisive, qui il male colpisce tutti con la sostanza causale del gesto e l’imprevedibile risultato dell’effetto.

La cosificazione di Myers è una questione su cui potremmo aprire una lunga parentesi, a partire dal pronome “It” che lo designa, fino alla trasmissione della sua inafferrabilità nel cuore di un’intera comunità.

Contagio allora ci sembra la parola adatta, anche come connotazione ibrida. Green sfronda testi, immaginari e riferimenti che incendiano i cinefili, ma rimane freddissimo e dimostra evidente irritazione quando gli si fa notare che le tre maschere di Halloween III: Season of the witch, il bellissimo e atipico episodio diretto da Tommy Lee Wallace, vengono disseminate in Halloween Kills. Freddo rispetto alla metatestualità che attiva le fanfiction, mentre depotenzia i segni che ne alimentano la proliferazione.
Halloween ends spinge ad individuare il male nell’interazione sociale, attraverso l’esplosione epidemica del gesto violento.

Green utilizza i frammenti di un cinema di ampia diffusione cultuale, per riscrivere la sua versione generazionale, inattuale e perfettamente radicata nel presente. Inattuale per la scelta dichiarata di guardare agli anni ottanta come serbatoio di una semiotica legata al potenziale politico dei segni, in una direzione non dissimile da quella intrapresa da Jordan Peele. Radicata nel presente per capacità di sollecitare, anche formalmente, l’horror contemporaneo con il recupero di un realismo slasher scorretto, deragliante e vitale.

Tra isolamento e contaminazione, è la seconda via che pretende il proprio spazio. Non solo nell’ineluttabilità del contagio, dove ciascuno dei personaggi si trova contemporaneamente dietro e davanti la propria maschera, ma anche nello scontro interno alla classificazione generazionale delle famiglie. Condividere il male è ancora l’unica possibilità per raggiungere la salvezza. E quel bagno di sangue prima del rituale sacrificale conclusivo, nel taglio estremo delle vene, sembra individuare l’abbraccio dolente di un esorcismo, invece della forma oppositiva suggerita dalla lotta.

[Foto fornite da Ufficio Stampa Universal – Digital PR SWSERVICE – Silvia Saba ]

Halloween Ends di David Gordon Green (USA, 2022 – 111 min)
Interpreti: Jamie Lee Curtis, Andi Matichak, James Jude Courtney, Rohan Campbell, Will Patton, Kyle Richards, Judy Greer, Nick Castle, Stephanie McIntyre, Emily Brinks, Dillon Belisle
Musica: John Carpenter
Sceneggiatura: David Gordon Green, Chris Bernier Danny McBride
Montaggio: Timothy Alverson
Fotografia: Michael Simmonds

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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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