[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#f0b41d” class=”” size=””]Sinossi: Tre donne afghane di diversa estrazione sociale vivono a Kabul e affrontano grandi sfide nella loro vite. Hava e una donna incinta che vive in una famiglia tradizionale; vive con il padre e la suocera e nessuno si preoccupa veramente di lei, tanto che l’unica gioia rimastale è quella di parlare con il bimbo che porta in grembo. Maryam, giornalista televisiva di ottima cultura, sta per divorziare dal marito che l’ha ripetutamente tradita, ma scopre di essere incinta. Ayesha, una ragazza di 18 anni accetta di sposare suo cugino perché è incinta del suo ragazzo. Questo scompare dopo aver appreso la notizia. Le tre donne, per la prima volta, devono risolvere da sole i loro problemi.[/perfectpullquote]
Sahraa Karimi fa parte della seconda generazione di rifugiati Afghani in Iran, terra che le ha consentito di recitare in due produzioni locali quando era molto giovane per poi trasferirsi in Slovacchia e conseguire la laurea in regia cinematografica. Dopo aver prodotto numerosi cortometraggi in quasi dieci anni di carriera, arriva al suo primo lungometraggio, girato interamente a Kabul con attori Afghani grazie alla Noori Pictures, la casa di produzione con base in Francia, fondata dalla produttrice iraniana Katayoon Shahabi.
Tre nomi, tre ritratti di donna virtualmente connessi dal rapporto tra le aree rurali del paese con quelle più alfabetizzate. Anche se l’episodio dedicato a Maryam, l’anchor woman del telegiornale locale, occupa una posizione centrale, la Karimi non è interessata a creare una contrapposizione sociale endogena evidente, quanto a cercare le assonanze tra condizioni e gesti quotidiani, facendo perno sulla percezione della maternità. Il lavoro e la preparazione del cibo, l’istituto matrimoniale e la definizione di una propria soggettività, individuano uno spazio giuridico e sociale che si organizza intorno al guscio primordiale della casa.
Questa è rappresentata in quel passaggio difficile dal rifugio determinato dall’organizzazione patriarcale fino alla soglia che potrebbe relativizzarla. L’uscio che separa la stabilità domestica dall’esterno è un confine che la Karimi identifica più volte attraverso l’ambivalenza del gesto rituale, matrice creativa assegnata al femminile dal codice sociale, ma anche possibilità di rompere quel contratto camuffandone i segni e stabilendo un nuovo regime di credenza.
Sono numerosi gli ostacoli che impediscono l’ibridazione degli spazi e nell’episodio dedicato ad Hava, sembrano concretizzarsi nelle trappole disseminate dal padre lungo il giardino che avvolge la casa, per difendere l’amato cardellino dalle incursioni di un gatto nero.
Come in un racconto popolare, i servizi destinati alla cura degli uomini della casa, servono ad Hava per crearsi un proprio codice gestuale, in grado di liberarsi da percorsi e ostacoli obbligati, entro un perimetro che non può uscire definitivamente dal solco della tradizione, se non ricombinandone il senso.
Opposta e coincidente la prigione casalinga di Maryam, finalmente libera dalle menzogne del marito, vive la fluidità dello spazio contemporaneo, ma con uno sguardo maschile puntato addosso attraverso l’invasività delle nuove tecnologie nella dimensione privata. L’uso degli smartphone è in un certo senso determinante in tutti gli episodi del film, perché causa una frattura rispetto alla comunicazione imposta, ma ne amplifica anche la portata.
Ayesha, più delle altre, situa i segni e i codici della tradizione sul confine della reversibilità, adattandoli ad un mimetismo che le serve per attraversare gli spazi condivisi della città. Dalla casa alle stanze dove si praticano aborti clandestini, c’è un continuo riversarsi dell’interno sull’esterno, dove l’anelito verso la permeabilità degli spazi è possibile solo inventandosi una zona di scambio con un’operazione di mascheramento continuo.
Diretta, semplice e straordinaria la sequenza in cui Ayesha indossa lo schermo quasi integrale del Niqab per scegliere della propria vita attraverso il segno più esplicito della cancellazione soggettiva.
Il film di Sahraa Karimi, proprio in questa continua attenzione al gesto, al segno, al significato eradicato dalla tradizione, tra cibo e indumenti, trova una sua via che non è mai allegorica, nonostante l’influenza subita da certo cinema iraniano. Vicina ai corpi delle sue protagoniste, le segue con quel desiderio di liberare lo sguardo, come quel gesto semplicissimo di scostarsi per un attimo il velo per guardare fuori dalla finestra.