martedì, Novembre 5, 2024

Heart of a dog di Laurie Anderson: la recensione

In un’intervista rilasciata da Laurie Anderson per la serie di trasmissini PBS dedicate a Reading Rockets, l’iniziativa di supporto ai bambini con difficoltà di apprendimento, l’artista americana raccontava del debito, affettivo e creativo, nei confronti di un’insegnante che in giovane età l’aveva introdotta alla scrittura degli Haiku. La Anderson, che da piccola aveva dovuto compensare alcuni difetti di pronuncia con trattamenti logopedici, racconta come la composizione di brevi poemi secondo gli insegnamenti della tradizione orientale, le avesse indicato una strada per pronunciare correttamente le parole, proprio in virtù della scelta precisa dei fonemi da utilizzare.
Che la parola e lo storytelling siano gli elementi centrali nel lavoro della Anderson è chiaro sin dai primi anni ottanta; i Film sono come grandi metronomi per le storie – diceva tra Big Science e United States I-IV – Mi servo dei film e della musica per ragioni ritmiche, e come sottotesto per le storie. Il soggetto reale, il vero la voro, è lo spoken word“.

I “focolari elettronici” rappresentano quindi per la Anderson quel territorio di transito tra nuovi media e narrazione, in grado di rievocare la stessa magia delle storie a veglia, ma nel passaggio continuo tra interattività e schermo, corpo e macchina, tanto che le sue performance, anche quando sono sbilanciate dalla parte dei suoni, creano sempre una relazione di scambio tra la presenza fisica e l’assenza simulata. Il corpo e la voce in relazione ai dispositivi tecnologici che ci circondano, nell’arte della Anderson, possono quindi diventare dei moltiplicatori, un terzo elemento nato dalla commutazione, proiettato verso l’estensione delle capacità percettive.

In Heart of a Dog la voce narrante di Laurie è cristallina, si serve di quella pronuncia ritmico-musicale che suggerisce altri percorsi oltre la relazione semiotica di tipo inferenziale; lo ha precisato anche qui a Venezia in conferenza stampa, rifiutando il modello semiotico occidentale, binario, ternario ma anche aperto e riferendosi nuovamente alla scrittura degli Haiku come realtà temporali che trascendono ogni limite, misura, nome, segno o confronto. Ecco allora che la narrazione della Anderson, da sempre segmentata e costituita oltre che da stratificazioni idiolettiche, da reminiscenze, motti di spirito, memorie diaristiche, parabole mutuate dalle scritture sacre ma anche da quelle dell’esperienza quotidiana, segni della società industrializzata, samples da diverse sorgenti sonore documentali e in fine slogan pubblicitari, in parte cominciano ad abitare lo schermo cinematografico riducendo la distanza e l’ipertrofia transmediale e re-inventando quella capacità di passare da un media performativo all’altro in una dimensione più intima.

Per quanto l’intimità non sia mai stata aliena ai lavori della Anderson, sopratutto nel tentativo di stabilire una sintesi complementare tra corpo pulsante e battito microfonico, device elettronico e danza, drum-machine e corpo, stand-up comedy e interattività, in questo commovente lavoro che ricorda in parte l’ “atto del vedere” nel cinema di Stan Brakhage, c’è lo spirito del medesimo amalgama nella relazione possibile delle storie con le immagini, attraverso la deriva ritmica, le soggettive che si annullano l’una nell’altra, dall’animato all’inanimato, dall’infinitesimamente piccolo all’invisibile, dal proprio cuore a quello di un cane.

Se il corpo, per la Anderson, è sempre stato lo strumento portabile definitivo, l’occhio che attraverso smartphone, go-pro e altri occhi mobili si allinea allo sguardo di Lolabelle, il piccolo e amatissimo Rat Terrier, cerca di registrare l’erba, l’aria e la terra nel ritiro montano dell’artista americana, stanca dei dispositivi di sorveglianza che ci osservano e ci scansionano ovunque. Il materiale di Heart of a dog è quindi costituito da scatti quotidiani, disegni e pitture della Anderson, vecchi filmati super 8 appartenenti alla famiglia, frammenti visuali di performance prodotte per altri contesti, tra cui lo sguardo sgomento di Lolabelle mentre i falchi prendono le misure sopra di lei, originariamente inserito nel monologo di ’90 minuti “The End of the Moon“, prodotto per la NASA.

Il nonsense, gli “empty places“, incluso l’orizzonte metafisico e magrittiano di Excellent Birds (la video performance satellitare pensata da Nam Jun Paik per Peter Gabriel e la Anderson) e ancora il linguaggio virale tra Burroughs e la Galassia Gutenberg di Mcluhan, vengono ricombinati in queste immagini mnestiche rallentatissime, oppure sottoposte ad un “melting” tra sfondo e corpo, alla ricerca di una qualità interiore che differisca rispetto all’ipertrofia omogenea degli archivi digitali coevi.

La Anderson racconta come tra le prime intenzioni che hanno accompagnato il suo trasferimento in montagna, ci fosse la curiosità cognitiva di capire quali delle 500 parole che un Rat Terrier è in grado di distinguere, fossero quelle che Lolabelle poteva immagazzinare e riconoscere. Un obiettivo presto dimenticato, e sostituito dalle passeggiate con il cane e dall’indagine, sempre più acuminata, sull’origine dei sogni, sulla sincronicità, su quello stato pre-nascita o post-mortem che non risuona solamente con la frase di David Foster Wallace secondo cui “ogni storia d’amore è una storia di fantasmi“, ma anche con una vecchia lirica della Anderson, Born Never Asked, dove dietro la tenda si nasconde la dimensione del mistero.

Proprio il parto intruduce il film, con un bozzetto a matita realizzato dalla Anderson e animato in forma minimale. Laurie sogna di partorire Lolabelle, ma da adulta, grazie all’inserimento del cane nel ventre, cucito dentro contro la volontà dell’animale.

Lo storytelling elettronico per la Anderson ha sempre cercato di non definire uno spazio circoscritto se non occupando quel limen ottenuto dalla commutazione tra dispositivo e corpo, ma anche tra parola e dispositivo, tanto da includere il trascolorare dell’elemento linguistico in quello non linguistico e pre-formale.

Heart of a Dog, proprio in questo senso, va oltre quel movimento di transito che si portava dietro anche alcune istanze politiche, nel rapporto dialogico tra organico e inorganico dove, per esempio,  Vocoder e Harmonizer si sbarazzavano delle delimitazioni di genere. Il “light suit” è adesso disassemblato dal corpo, non mappa più il movimento, ma lo smaterializza comunque nella percezione dei piccoli fenomeni, e sopratutto nello spazio interiore definito dalla commistione tra memoria e sogno che consente alla Anderson di avvicinarsi allo stupore infantile e alle storie per bambini.

Turning time around, il brano di Lou Reed che conclude il film non è solo una bellissima dedica ma anche una definizione d’amore come istante, elemento irriducibile del tempo che si avvicina nuovamente allo spirito di questa serie infinita di Haiku in movimento.

if I had to I’d call love time […] Well for me time has no meaning | no future, no past

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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