La storia dell’insegna eretta sul Mount Lee per dominare le colline sopra il distretto losangelino di Hollywood, incluso il suo stato di deterioramento, attraversa tutto il lavoro di Roy / Dorange.
La giovane Hedwig Eva Maria Kiesler, già ribattezzata Hedy Lamarr dal produttore Louis B. Mayer, la osserva spesso. Dal balcone di una festa, da una finestra, quasi per esprimere una spinta verso il sogno che già comprende la disillusione e la decadenza. Tre anni dopo lo sbarco di Hedwig dal Normandie negli states, l’insegna aveva raggiunto il suo stato più precario, la scritta integrale Hollywoodland aveva già perso la lettera H. Ci vorranno nove anni per attivare un piano di ristrutturazione e cambiare i sogni immobiliari della vallata nell’indicazione più identitaria che si riferisca all’intero distretto di Hollywood.
La storia di Hedy Lamarr sembra attraversata da ostacoli simili a quelli che fino agli anni settanta hanno tormentato il simbolo più luminoso della città di Los Angeles. La narrazione puntuale di William Roy, proprio in questo senso, si apre al tratto minimale e retrò di Sylvain Dorange per consentire una demitizzazione del personaggio e una rilettura del mito attraverso la collisione tra identità femminile e sguardo maschile. Più del plot biografico legato alle vicissitudini dell’attrice di origini austriache è il modo in cui questo reagisce con i disegni dell’artista francese, capace di recuperare tono, colore e struttura dell’advertising anni quaranta, per negarne lo statuto ed evidenziare ombre e fratture.
Entro la cornice di una ricerca iconografica, si sdipana l’ordinarietà del bozzetto intimo come contrasto flagrante contro quello della diva. Un approccio vicino per certi versi al lavoro naturalistico svolto sulle sceneggiature dei film di Robert Guédiguian per il progetto di adattamento dallo schermo alle tavole a fumetti voluto da Emmanuel Proust e intitolato “Un conte de L’estaque“. In quel caso, il talentuoso disegnatore francese si allontanava dalla mimesi dell’universo cinematografico del regista, cercando di evidenziarne lo spirito, attraverso il recupero dei colori, dell’aria e dei tratti che appartenevano ad un certo spirito marsigliese, così da spingere il risultato verso un minimalismo quasi rohmeriano.
Ecco che Hedy Lamarr non è “bella” come l’immagine che conosciamo attraverso il cinema, le foto pubblicitarie e gli scatti catturati sul set. Dorange ha uno stile marcatamente espressivo e cerca di evidenziare altri aspetti dell’attrice. Nell’apparente linearità della storia biografica sintetizzata da Roy, Dorange attiva la nostra fantasia lavorando sulla caratterizzazione dei personaggi, sull’esasperazione somatica e sul rapporto con uno spazio contratto e di sintesi che si serve degli strumenti del linguaggio pubblicitario per esprimere un concetto con la stessa efficacia, ma che porta irrimediabilmente altrove.
La lotta ingaggiata da Hedy è tutta nel tentativo di sfondare questa cornice, di uscire dalla rappresentazione che le viene imposta, non importa se il contesto è quello matrimoniale oppure delineato dalla relazione contrattuale con Mayer. In entrambi i casi, Roy/Dorange raccontano la storia di una donna in fuga dalla stessa rappresentazione del desiderio, strumento di emancipazione più che obiettivo. Il talento per le invenzioni non le sarà mai riconosciuto durante gli anni del fulgore e del furore, a partire dalle variazioni di frequenza nella trasmissione di un segnale radio, sfruttate solo in tempi più recenti per le reti tattiche digitali militari e come base per lo sviluppo dei sistemi Wifi. Eppure è sull’intelligenza e sulle conoscenze tecniche che punta, è su quelle che lavora clandestinamente, coltivando speranze ostinatamente e di nascosto tra un successo cinematografico e l’altro.
Roy/Dorange elaborano sottilmente la storia di un’antidiva, attraversata da ossessioni e contraddizioni e destinata alla cancellazione dell’immagine simulacrale. Negli anni della sua reclusione in Florida, assistita solamente dal figlio Anthony Loder, i due autori francesi introducono i novanta di una Hollywood svenduta ai turisti in formato gadget. Ancora l’insegna, questa volta chiusa in una palla di vetro con l’effetto neve. Hedy ha il volto sfigurato da una serie di interventi plastici non andati a buon fine, per questo non ritirerà personalmente il premio assegnatole dall’Electronic Frontier Foundation nel 1996, per le sue invenzioni pionieristiche.
Roy/Dorange la ritraggono in casa con i nipoti, con il volto in penombra mentre sullo schermo televisivo scorrono le immagini di “Experiment Perilous” di Jacques Tourneur.
Del film, i due autori francesi, catturano e rileggono un momento in particolare, quello in cui Allida “smuove” e “disturba” la sua immagine, riflessa in una superficie acquatica. Il gesto corrisponde ad uno dei momenti di angoscia inespressa da parte della donna, generata dalle sollecitazioni possessive di Nick (Paul Lukas), l’uomo che l’ha appena chiesta in sposa.
É una vertigine che in termini più evidenti si riflette sul passato di Hedwig Kiesler, quello del matrimonio con Fritz Mandl durante la sua adolescenza austriaca, ben raccontato dal volume.
Ma in forma più sottile risuona con il desiderio di cancellare l’immagine allo specchio per ritrovare l’essenza della propria vita. Un aspetto su cui Roy/Dorange insistono accumulando piccole infrazioni, lievi interferenze, come quella che improvvisamente congela l’immagine della Lamarr ospite del Merv Griffin Show insieme a Woody Allen nel 1969, per improvvisa assenza di banda. Ogni immagine allora, ogni vignetta del lavoro di Roy/Dorange viene continuamente re-inquadrata, ri-mediata da un passaggio senza soluzione di continuità tra la dimensione privata e quella collettiva, tra un dispositivo e l’altro, tra un sistema di codici sociali e il successivo. L’ipertrofia mediale, come riflesso di una vita, non può altro che dissolversi sotto forma di puro segnale, rilanciato da una stazione satellitare orbitante nello spazio.