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Holy Spider di Ali Abbasi: recensione

Holy Spider di Ali Abbasi è ispirato dalla cronaca nera iraniana di vent'anni fa. Al centro, i delitti di Saeed Hanaei, che dal 2000 al 2001 strangolò sedici lavoratrici del sesso con il loro hijab, nella città santa di Mashhad

Il cinema di Ali Abbasi non è immediatamente inseribile entro la tradizione di quello iraniano, per vocazione e scelte produttive. Non fa eccezione il nuovo Holy Spider, ispirato ad un fatto di cronaca avvenuto nei primi anni del nuovo millennio a Mashhad, capitale spirituale del suo paese, ma realizzato attraverso la co-produzione tra Danimarca, Francia, Svezia e Germania, che gli ha consentito lo svolgimento delle riprese in un paese con molti meno ostacoli come la Giordania.

I delitti del serial killer Saeed Hanaei, che tra il 2000 e il 2001 strangolò sedici lavoratrici del sesso con il loro hijab per portare a termine una personale e allucinata Jihad contro il degrado, servono ad Abbasi per costruire un neo-noir basico e concepito con le consuete simmetrie che da Cruising in poi, cercano di sondare gli abissi dell’esperienza urbana.

Rispetto ai fatti di cronaca, introduce infatti la figura di una giornalista investigativa interpretata da Zar Amir Ebrahimi, ossessionata dai delitti del ragno fino a confondersi progressivamente con il punto di vista delle vittime.

Apparentemente lontano da qualsiasi forma di simbolismo, Abbasi dichiara di scegliere un approccio diretto, costruendo un’invettiva contro la radicata collusione tra istituzioni civili e religione, tanto da confondere la recursività delle azioni criminogene di Saeed con un brodo di coltura che coinvolge ogni aspetto della quotidianità. Dalla reception di un albergo alla relazione con i funzionari delle forze dell’ordine, il lavoro della reporter viene costantemente messo in discussione con attitudini comportamentali, sguardo e segni che individuano i principi stessi della polizia morale come codice linguistico alla base di una società patriarcale eretta sulla reiterazione dell’abuso.

Abbasi insiste quindi sulla qualità grafica dei delitti, replicando il rituale di morte consumato ogni volta nello spazio famigliare del killer, così da sovrapporre devozione e violenza, crudeltà e vita con i figli.
Mashhad, città tutt’altro che santa, viene quindi dipinta con i colori lividi e la luce notturna del sodale Nadim Carlsen, che assegna al film l’atmosfera di un incubo lucido, quasi promanasse dalle crisi da stress post traumatico che sembrano colpire Saeed dopo l’esperienza della cosiddetta guerra imposta.

Lo sguardo viene caricato con la pornografia quotidiana della violenza, puntando una luce accecante che renda tutto perfettamente visibile, perché evidentemente non c’è altro da vedere se non la contrazione dolorosa dei volti delle vittime.

Una scelta discussa e considerata oscena nel senso etimologico preferito da Carmelo Bene di “fuori dalla scena” proprio dalle autorità iraniane, che hanno bandito la visione del film secondo la loro idea di decoro. Piaccia o meno, Holy Spider è un film algido e rabbioso, che insiste sul gusto di uccidere, assumendo totalmente il punto di vista dell’omicida nel tentativo di eradicare dall’immagine gesti e segni che possano ricondurre al regime visivo della pietà.

Nella distanza raggelata dai corpi, persistono questi volti femminili a cui occorre appellarsi per trattenere un riflesso oppure il segno di una vita negata. Emerge allora, nella ripetizione insistita di un sadismo esibito, l’irriducibilità del dolore, la morfologia grottesca e terribile dei lividi, un ghigno che rimane paralizzato nel sangue, per la ripetuta violenza dei pugni. Al disprezzo di Saeed non possiamo far altro che contrapporre un processo di riempimento di quelle immagini, lo stesso che probabilmente siamo spinti ad attivare in Border, tra desiderio e repulsione.

Questa determinazione obbligata dello sguardo, conduce Abbasi a formulare una tesi già inscritta in ogni momento del film e ad esplicitarla con una mediazione artatamente autoriale.

Il corpo collettivo include e sostiene la violenza del singolo in un avvitamento transgenerazionale, dove lo Stato espelle il crimine solo dal punto di vista formale, perché all’inevitabilità dell’esecuzione capitale necessaria per la sopravvivenza dell’apparato, sovrappone la prospettiva martirologica utile per giustificare davanti al popolo, la repressione violenta del meretricio.

Per Abbasi la violenza del suo film e il ruolo nodale dello Stato, tra contenimento e provocazione, anticipa tutto quello che sta accadendo in Iran, dopo la soppressione di Mahsa Amini.

Ma pur di mostrare il cuore malato di un’intera comunità, Abbasi modella la cornice drammaturgica e trasforma in termini forzatamente simbolici proprio quella realtà che vorrebbe rappresentare da una giusta distanza. Tutta la sezione conclusiva del film, dall’impiccagione di Saeed, al figlio maggiore che recita le gesta del padre con l’aiuto della sorellina, sembrano animati dalla stessa energia negativa che caratterizza certo cinema europeo della crudeltà da Haneke in poi, dove l’immagine viene bloccata al centro e irrimediabilmente esclusa dalle possibilità periferiche dello sguardo soggettivo.

Holy Spider di Ali Abbasi (Francia, Germania, Svezia, Danimarca 2022 – 117 min)
Interpreti: Zahra Amir Ebrahimi, Mehdi Bajestani, Arash Ashtiani, Forouzan Jamshidnejad, Sina Parvaneh, Nima Akbarpour, Mesbah Taleb, Sara Fazilat, Ariane Naziri, Alice Rahimi
Sceneggiatura: Afshin Kamran Bahram, Ali Abbasi
Fotografia: Nadim Carlsen
Montaggio: Olivia Neergaard-Holm

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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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