sabato, Febbraio 15, 2025

Home Sweet Home (Hjem kaere hjem) di Frelle Petersen: recensione – Berlinale 75

La vicinanza dei gesti e delle azioni di cura al corpo delle persone anziane non più autosufficienti è al centro di "Home Sweet Home", ultimo capitolo della trilogia dello Jutland diretta dal regista danese Frelle Petersen e presentato in anteprima alla Berlinale 75. Commovente esercizio di osservazione radicale, riesce a smuovere la forza del bene e del male, nel momento in cui possono e riescono a manifestarsi, nell’inerzia e nella libertà assoluta del tempo.

Il sistema di assistenza sanitaria domiciliare danese è probabilmente tra i più efficienti per quanto riguarda le iniziative di sostegno destinate alle persone più deboli. Ma le intenzioni di Frelle Petersen non sono legate alla disamina delle politiche di welfare attivate nel paese scandinavo. L’ultimo capitolo della trilogia dedicata allo Jutland, a tre anni di distanza da Forever (Resten af livet), prosegue un discorso personale sul vuoto e la solitudine, affidandosi ancora una volta al volto della sua interprete feticcio, Jette Søndergaard.
L’attrice danese si immedesima nel ruolo di una caregiver municipale, moltiplicando l’impostazione famigliare del film precedente, nello spazio privato di numerosi assistiti.
Depotenziare la drammaticità delle immagini continua ed essere la prospettiva privilegiata da Petersen, con una scelta che in questo caso diventa specifica e uniformante nella descrizione degli spazi intimi, delle case, delle camere da letto, delle cucine dove l’infermiera si trova di volta in volta a svolgere i suoi compiti.

I corpi, raccontati a distanza naturalistica, sono quelli di persone anziane, incapaci di svolgere azioni quotidiane più complesse e in alcuni casi definitivamente allettati.
Petersen, oltre ad avvalersi di attori non professionisti, sceglie un punto di vista impudico, ma non compiaciuto, per descrivere un difficile atto d’amore che nasce prima di tutto dalla vicinanza assoluta alle funzioni di un corpo in decadimento.

Una riflessione opposta rispetto alla tradizione concettuale e filosofica a cui attingono Haneke e Gaspar Noé, per la libertà concessa allo spettatore di situarsi all’interno oppure fuori da quel nichilismo che vorrebbe stabilire un confine certo tra dignità e assenza della stessa.
L’accudimento come mestiere, per Sofie, il personaggio interpretato dalla Søndergaard, passa attraverso la cura pragmatica di tutte le necessità, esperite con la vicinanza totale del gesto, ma può incrinarsi quando la rete di assistenza sociale è il risultato di una frantumazione estrema dei compiti, le cui ricadute sugli anziani non autosufficienti possono generare emarginazione e incuria.
Sofie è quindi lacerata tra una dedizione consapevole e il proprio spazio sociale, quasi interamente occupato dalle esigenze della figlia adolescente, e rischia un difficile cortocircuito emotivo quando offrire aiuto in una direzione, significa togliere respiro alla propria vita.
Con la discrezione di un osservatore esterno che rimane sempre un passo indietro rispetto alla soglia più intima, Petersen è interessato allo sdipanarsi delle piccole dinamiche interne a questi appartamenti, dove domina una dimensione eternata del tempo.

Nel sodalizio rinnovato con Jørgen Johansson, la direzione della fotografia non taglia quasi mai sugli oggetti, né accorcia le distanze con l’impiego di close-up, preferendo allineare l’unità dell’inquadratura a quella temporale, per avvicinarsi ad una descrizione dello spazio fisico vicina all’esperienza.
Mentre il film precedente cercava di rivelare la presenza della morte nel vuoto, Home Sweet Home mette insieme quelle intuizioni, facendo reagire la persistenza della vita nello spazio inerte della casa, guscio protettivo che ancora trattiene tutto il percorso identitario di chi le abita e le ha occupate.

L’immutabilità dei luoghi che ci precedono e che sopravvivono a noi stessi, sembra provenire dalla consistenza fotografica dei dipinti di Vilhelm Hammershøi, dove lo stesso concetto di transitorietà, viene immerso in una luce sospesa nel tempo, con gli ambienti che inghiottono la figura umana, spingendola in una posizione periferica.
Quella luce crepuscolare nordica che caratterizza alcune peculiarità dell’arte scandinava tra otto e novecento, si cristallizza nell’opera di Hammershøi attraverso una rilettura estrema della pittura di genere Vermeeriana, soprattutto per quanto riguarda la figura umana, presente nei quadri del danese in quanto vacante oppure parte anonima e integrante degli elementi architettonici.
C’è già quel senso del limite avvertito rispetto alla codificazione scientifica del reale per come lo definisce Wittgenstein, dove a ciò che è dicibile si contrappone un altro piano di realtà, situato oltre la fattualità stessa e definito attraverso i riflessi di luce, le apparizioni fugaci, le figure umane dipinte di spalle.

Questa estetica del silenzio attraversa tutto il film di Petersen, ma con un disallineamento tra corpo e spazio che può verificarsi solo attraverso l’esperienza emozionale degli individui.
Sofia, che ha un proprio codice morale, si scontra contro l’ineluttabilità della solitudine, a cui non può far fronte nonostante l’impegno estremo a ai limiti della sopportazione.
Il suo passaggio da un paziente all’altro è inscritto anche nella ripetibilità delle azioni, dei gesti, dei compiti assegnati. La cura delle piaghe da decubito oppure la preparazione di un pasto caldo per chi non è in grado di far da solo, si ripete senza apparenti differenze, ma partecipa di un’altra luce definita dalla mappa indescrivibile delle emozioni, assegnate non certo alla parola, ma alle espressioni del volto, al lavoro delle mani, alle piccole azioni di vicinanza che interferiscono con una temporalità altrimenti insopportabile.

Allora, più della rappresentazione del mal del vivre, postura ormai falsificabile nell’opulento occidente inter-relato e diventata verbalizzazione di un cinema che non ha più niente da mostrare, Home Sweet Home è un commovente esercizio di osservazione radicale.

Commovente proprio per il modo in cui riesce a smuovere la forza del bene e del male, nel momento in cui possono e riescono a manifestarsi, nell’inerzia e nella libertà assoluta del tempo.

Home Sweet Home di Frelle Petersen (Hjem kaere hjem – Danimarca 2025 – 112 min)
Interpreti:+Jette Søndergaard, Karen Tygesen, Mimi Bræmer Dueholm, Hanne Knudsen, Finn Nissen
Sceneggiatura: Frelle Petersen
Fotografia: Jørgen Johansson

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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