Per il suo primo film come regista, Molly Manning Walker abbandona la direzione della fotografia affrontata con Scrapper e affida luci e colori dell’immagine ad uno degli artisti canadesi più creativi e quotati. Eppure tra l’iperrealismo visuale del film di Charlotte Regan e l’approccio di Nicolas Canniccioni ci sono alcune qualità comuni, per esempio la capacità di sfruttare la commistione tra illuminazione naturale e artifici già incorporati negli ambienti, in modo da far diventare l’immagine parte integrante di un’esperienza fortemente soggettivizzata.
In Scrapper era il taglio prospettico dal basso verso l’alto e la scelta del panoramico, per esaltare l’architettura della suburbia osservata dagli occhi di una bambina; mentre il susseguirsi di luci strobo e dei primi bagliori del giorno in How to have sex, restituisce l’energia euforica e infernale di Malia, la striscia costiera nei pressi di Creta destinata ad ospitare da tutta Europa i week-end dello sballo orgiastico post-liceale.
Rispetto all’idealizzazione libertaria e allo stesso tempo distruttiva che caratterizza il progressivo superamento dei limiti all’interno delle bolle allestite per il consumo giovanile, Manning Walker non si lascia sedurre dal cortocircuito tra illusioni controculturali e capitalismo e ne mette a nudo l’esoscheletro con un cinema di vocazione esperienziale.
Tara, Em e Skye sono assorbite insieme ad altri sedicenni dall’accumulo all inclusive della proposta alcolica, festaiola e sessuale del luogo, una dimensione di passaggio che sembra preparare le future comunità ad esaurire le possibilità della cittadinanza con i rituali dell’overtourism, trasformando gli spazi in non luoghi virtualizzati dal consumo compulsivo di ogni esperienza.
Senza che questo diventi esplicativo, la regista inglese costruisce i confini e le possibilità di uno sguardo morale raccontando la definizione di un limite in base alla volontà soggettiva.
E per far questo si sbarazza di retorica e forme narrative dell’ammonimento, semplicemente aderendo alla prospettiva di un’improvvisa perdita di coordinate all’interno di un percorso di conoscenza identitaria e carnale, allestito per funzionare in un certo modo e per barattare il regno della libertà estrema con l’oppressione dei corpi.
A Tara, interpretata da Mia McKenna-Bruce, attrice capace di bilanciare viscere e introspezione con grande sensibilità, spetta il viaggio più difficile, quello del disallineamento con la narrazione diffusa.
La regista inglese la segue dal momento in cui le forme del desiderio cominciano ad emergere come modello di rappresentazione collettiva.
Le traiettorie scopiche, con la funzione basilare e illusoria di un’antropologia del piacere, sono accordate sulla concezione architettonica del resort, la scansione del tempo piegato alle necessità del divertimento, il teatro dei corpi che circoscrive significati e delinea i confini di ciò che è accettabile entro logiche strettamente performative.
Manning Walker immerge lo sguardo in quella che Bryman definisce come Disneyzzazione della città,
dove il superamento dell’eccesso è l’unica soglia ipervisiva disponibile, in un’arena concepita per esperienze immersive da dove è impossibile uscire e problematizzare l’orizzonte.
Che siano i balconi delle camere confinanti, la piscina o il palco di una discoteca dove esplode l’immaginario Brazzers eteronormato, tutto converge alla codificazione di un’identità collettiva che nella teatralizzazione dell’estremo, elimina proprio le eccedenze.
Entro questa frequenza che crea un ordine ideologico ben preciso, Tara non riesce ad integrarsi, tanto da provare repulsione quando assiste alla spettacolarizzazione più brutale di una sessualità esibita.
La percezione della violenza è allora una questione di sguardo anche rispetto alle forme di legittimazione esercitate dal gruppo delle amiche più strette.
Manning Walker ha il coraggio di mettere a nudo le forme più tossiche della sorellanza, come spazio coltivato contro le donne, ma più in generale, contro qualsiasi percorso di conoscenza e confronto.
Mostrare lo scarto, qualità comune a molto cinema britannico recente, significa non solo individuare tutti i segni possibili del fuori-campo, quanto rivelare attraverso immagini dissonanti gli strati di una realtà data. Viene allora mostrato il ripiegamento interno del gruppo e la sua stessa sopravvivenza entro il contesto ideologico che lo tiene insieme.
Tara non può sabotarlo e comincia a vivere negli interstizi dello spaziotempo mercificato, percorre le strade della città greca rivelandone nella luce diurna il volto inquietante e desertificato.
La luce naturale, rispetto ai neon, ai led e alla solarità esibita che esalta i colori saturi del film, investe con una desaturazione improvvisa e opposta la struttura di una città fantasma, accesa solo nell’illusione illuminotecnica che ridefinisce i confini notturni.
Più che all’entusiasmo semiotico di Barthes al cospetto de Le Palace, luogo transitorio di quarant’anni fa capace per il filosofo francese di concretizzare una stimolante utopia creativa tra collettività e spazi virtuali, la Grecia contemporanea del divertimento giovanile che si apre al termine dell’esperienza di Tara fa pensare al Nevada di Amir Naderi descritto in Vegas, dove il deserto rappresenta la memoria morfologica di una città fata morgana, viva solamente nella virtualità delle luci e dell’azzardo estremo.
Tra lo scheletro della città e il suo fantasma luminoso, ricco di promesse come qualsiasi parco tematico, la spiaggia diventa il luogo dell’abuso. Si compie una sovversione completa rispetto alla direzione beffardamente tutorialistica a cui allude il titolo del film.
Tra l’evento, adamantino nella sua fugacità tragica e brutale e l’impossibilità di nominarlo da parte di Tara in un contesto che delegittima l’ascolto, Manning Walker compie un’operazione delicata e allo stesso tempo molto potente con i mezzi di un cinema mai predittivo, didascalico oppure plasmato sulle forme del giudizio che sezionano l’energia, anche negativa, dell’esperienza.
L’espressione del consenso non passa né può passare per Tara da un’asserzione verbale della volontà.
La parola soffocata dalla morfologia dei luoghi e dall’immaginario collettivo che non ammette alcuna crisi è completamente scissa dal gesto, dal volto e dal corpo della ragazza che Manning Walker filma con una delicatezza e allo stesso tempo insostenibile drammaticità.
Tocca a chi guarda incrociare gli occhi di Tara, cogliere i segnali non verbali sui quali la regista si sofferma, interrogare il suo animo e la sua sofferenza mentre l’indifferenza circostante la svuota definitivamente e la rigetta come un cadavere nelle fauci del divertimento senza requie.
How to have sex di Molly Manning Walker (Gran Bretagna, Grecia 2023 – 91 Min)
Interpreti: Mia McKenna-Bruce, Lara Peake, Samuel Bottomley, Shaun Thomas, Enva Lewis, Laura Ambler, Daisy Jelley, Eilidh Loan, Anna Antoniades, Eleni Sachini
Sceneggiatura: Molly Manning Walker
Montaggio: Fin Oates
Fotografia: Nicolas Canniccioni