Quello che Jude e Mina conservano di New York è una dimensione intima, la possibilità di non farsi inghiottire dalla dispersione dei grandi spazi, ritagliandosi un pezzo di mondo che includa sogni e desideri. Non è semplicemente la costruzione di un nido separato dal mondo, ma la ricerca di un senso che sia naturalmente percepito come prolungamento del proprio sentire, la mappatura di un luogo di appartenenza. Hungry Hearts si apre con una sequenza ambientata nella toilette di un ristorante asiatico; Mina (Alba Roharwacher) entra nella parte antistante al gabinetto e mentre proprio da quello esce Jude (Adam Driver), i due rimangono bloccati dentro. Con una camera fissa molto vicina ai corpi, Saverio Costanzo si chiude da subito insieme ai suoi personaggi all’interno di un acquario, prossimità che gli permette di osservare e partecipare, scegliendo sempre un punto di vista sensoriale assolutamente imprevedibile, perchè sottoposto ai continui cambiamenti di stato dei suoi attori. Il regista Romano ha parlato di film “strappato”, riferendosi ai tagli bruschi e ad una voluta imperfezione del montaggio, prassi guidata da una forza istintiva e capace di restituire tutta l’ambiguità epressiva della percezione. Senza alcuna intenzione di tracciare un percorso psicologico, le ottiche di Costanzo seguono i corpi ed evidenziano i loro gesti, operando una sostituzione della scrittura letteraria con un linguaggio di natura tattile; Hungry Hearts cambia spesso formati, angolature, dispositivi di ripresa, interpretando il movimento e i corpi, ma anche agganciandosi a loro in un confronto fisico che fa aderire di volta in volta lo sguardo soggettivo ad uno diverso tra i personaggi del film.
Una ricerca di contatto che già dalle prime ore dopo il parto, è la stessa perseguita da Mina con il figlio, corpo-a-corpo sempre più intenso che spinge la donna a concepire l’alimentazione da destinare al piccolo come un prolungamento istintivo della propria natura, tagliando fuori tutto quello che è lontano dalla sua biologia e da quella del figlio. Le scelte di Mina sembrano coincidere con i problemi di salute del piccolo, a rischio denutrizione e rachitisimo, ma allo stesso tempo Costanzo non insiste affatto su una possibile relazione diretta tra questi aspetti, non lasciandosi ingannare da una lettura borderline dei personaggi. In fondo, le scelte non riconciliate di Mina, Jude e Anne, la madre dell’uomo, sono tutte quante sul bordo che separa la vita dal desiderio, la verità dalla possibilità di sbagliare, l’esterno dall’interno; Costanzo li segue tutti con grande rispetto, senza applicare una selezione giudicante sulle loro scelte, ma al contrario avvicinandole sempre di più con l’occhio delle Go-Pro, allineandosi alla sofferenza di tutti e cercando una motivazione vitale per le azioni dei suoi personaggi, anche quelle più estreme.
Dopo il notevole “La solitudine dei numeri primi” Saverio Costanzo torna ad osservare il mondo di persone dalla grande forza, rese fragili da un contesto difficile e ostile, e lo fa con un cinema libero e di grande spessore visionario, legato maggiormente al gesto che alla parola, raccontando l’anima di una famiglia che potrebbe essere la nostra, senza il timore di oltrepassare i confini, ma al contrario condividendone lo stesso spazio. In questo senso ci è sembrata molto forte la relazione di Saverio Costanzo (in questo e nel precedente film) con la fisicità di Alba Roharwacher, per il modo in cui viene valorizzata la capacità dell’attrice di origini Fiorentine di lavorare anche sul poprio corpo, con questa apparente fragilità che diventa forza comunicativa estrema; tra Mina e Jude, chi esercita reazioni violente anche involontarie è in realtà il secondo, mentre Mina cerca quasi sempre un via relazionale in sintonia con la propria fisicità; lieve ma decisa, punta alla realizzazione di un’idea armonica. Anche nei momenti di conflitto più tragico, Costanzo non separa mai i due personaggi, lasciando sempre aperta la possibilità di un contatto, come nella bellissima sequenza dove Mina torna via con il bimbo e tocca la mano di Jude attraverso il finestrino dell’automobile della Polizia in movimento. Hungry Hearts, rielabora il romanzo di Marco Franzoso con una forza aptica sorprendente, oltre che cinema dell’occhio soggettivo, è allora anche cinema del darsi e del toccarsi, senza limiti.