domenica, Novembre 17, 2024

I Am. Ruth e le altre, la serie di Dominic Savage: recensione

Scritti in forma essenziale insieme a ciascuna protagonista coinvolta, gli episodi di "I am" delineano una geografia femminile immersa nel quotidiano, dove la vicinanza ossessiva al gesto minimo disegna, insieme ai corpi, un elogio del margine. "I am Ruth", asso pigliatutto ai recenti premi BAFTA, aggiunge alla ricerca di una definizione identitaria soggettiva il confronto tra madre e figlia, incarnato da una relazione concreta come quella tra Kate Winslet e Mia Honey Threapleton. Si attiva un meccanismo autoriflessivo dai confini indecifrabili, che dona alla scrittura una qualità potenziale e relativa. Sulla bellissima serie di Dominic Savage.

Potenza e vulnerabilità.

Sono le due qualità sulle quali Dominic Savage ha puntato per ottenere il meglio dall’interpretazione di Elliot Page in “Close to you”, il suo nuovo film per il cinema appena terminato, che a sei anni di distanza dal precedente The Escape, comincerà a circolare dopo l’anteprima al prossimo Toronto Film Festival.

Savage non sperimenta per la prima volta con l’assenza di una sceneggiatura vera e propria, presupposto vitale in tutti i suoi lavori, tanto da lasciare amplissime possibilità di improvvisazione agli interpreti.

Non ci sono allora differenze evidenti tra i drammi televisivi realizzati per la BBC e altri formati. In questo senso la storia di Ruth, che al momento costituisce la terza stagione di “I am”, salda i due mondi con una durata di 90 minuti rispetto ai 50 dei precedenti episodi e lascia a Kate Winslet e figlia l’elaborazione di una scrittura urgente, costantemente a rischio e agganciata a quelle capacità reattive che assegnano allo sguardo la possibilità di creare o distruggere la realtà.

Scritti in forma essenziale insieme a ciascuna protagonista coinvolta, gli episodi di “I am” delineano una geografia femminile immersa nel quotidiano, dove la vicinanza ossessiva al gesto minimo disegna, insieme ai corpi, un elogio del margine.

Ciò che lo spazio domestico sembra chiudere in una dimensione immutabile, viene spezzato da una decostruzione in fieri dell’ordine costituito. Le relazioni sociali ormai logore e tossiche, sono improvvisamente messe in discussione da un movimento costante che Savage sembra individuare nell’uscita necessaria da scene e drammaturgie considerate fondative. Quindi è dal margine che dolorosamente si può individuare uno spazio critico e successivamente scorgere prospettive inedite.

Savage è interessato ad indagare l’espulsione sistematica delle donne dalle scelte che riguardano il desiderio, la procreazione, la determinazione di uno spazio lavorativo fuori da dinamiche predatorie, la salute mentale e i modelli che ne caratterizzano la precarietà, la necessità di spezzare la percezione negativa legata all’età biologica e l’ossessione della fertilità come costrutto sociale ideologicamente orientato.

I am Ruth” aggiunge alla ricerca di una definizione identitaria soggettiva il confronto tra madre e figlia, incarnato da una relazione concreta come quella tra Kate Winslet e Mia Honey Threapleton. Si attiva un meccanismo autoriflessivo dai confini indecifrabili, che dona alla scrittura una qualità potenziale e relativa. Una caratteristica diametralmente opposta a quel metacinema che parte da una centralità asfissiante dell’autore inscritto nel dispositivo e che per lo più, soprattutto in Italia, rappresenta la saldatura di una memoria identitaria patriarcale, niente affatto messa in abisso rispetto all’immagine di un fallimento che sia più ampio del proprio.

Savage, al contrario, conosce bene il confine tra controllo e libertà, tanto da elaborare principi di scrittura che non temono l’improvvisa sospensione di senso e la rivelazione del vuoto.

Corpi e identità che si dibattono nello spazio domestico, le donne di “I am” contribuiscono alla creazione di un cinema esperienziale che con la tradizione dei Kitchen Sink drama mantiene solo alcune affinità apparenti.

Savage cattura ossessivamente movimenti di fuga in avanti, fuori dall’immanenza di quegli spazi e proiettati verso una ridefinizione costante dei parametri drammaturgici che descrivono l’arena sociale.

Se all’interno di queste uniche, dolorose e liberatorie avventure dello sguardo dovessimo intercettare un denominatore comune, questo forse risiederebbe nella subordinazione del Sé che schiaccia un’individualità. La provenienza di questa pressione è un accumulo spesso invisibile, ma concretamente sedimentato, il cui rifiuto può manifestarsi solo con un’esplosione di tutte le consuetudini percettive.

Savage non è interessato a sezionare la logica che scatena il propellente, perché lascia all’irriducibilità della performance l’espressione di potenza e vulnerabilità nel momento in cui si manifesta in tutta la sua forza. Quel vuoto razionale può allora essere riempito dallo spettatore, nel tentativo di ritrovarsi oppure separarsi da uno sguardo necessario, perché urgente.

Ruth e Freya osservano, ridiscutono e rimettono in scena Kate e Mia, con un avvitamento che non possiamo conoscere fino in fondo, ma che rivela un’intensità rarissima. Questa intensità si manifesta su quel crinale che per diverse ragioni, percorrono tutte le donne di “I am”.

La lenta e progressiva agnizione dei disturbi depressivi della figlia, nonostante il rifiuto di vivere praticato quotidianamente, diventano evidenti per Ruth attraverso i segni sul corpo e il riflesso scopico di un’altra identità rilanciata dall’iper-sorveglianza dei social media.

Ferirsi, per quanto avvicini all’abisso, è il controcampo vivo rispetto alla costruzione di un’identità disincarnata. Nel continuo inseguimento tra le pareti domestiche, Ruth riceve i riflessi di un rispecchiamento negativo e ridiscute ogni volta il suo ruolo come madre.

Ciò che nella ricerca di Savage sembra emergere è l’infrangersi della parola nella potenza generatrice del gesto. Questo può essere uno strappo violento, come quello di Maria che abbandona il tetto coniugale, oppure un’uscita di scena inaspettata, come per Danielle quando decide di lasciarsi alle spalle tutte le forme di subordinazione a quel ruolo assistenziale che determina alcune relazioni di coppia dal punto di vista femminile.

Qualunque realtà assuma il perimetro di una cornice narrativa insufficiente, viene riletta attraverso singolarità femminili non riducibili dal giudizio. I am è quindi definizione semplice e chiara. Indica la riassunzione del punto di vista rispetto ad un reale che ne collocherebbe l’espressione soggettiva sullo sfondo.

Lo sguardo di Savage, senza dialoghi scritti, si avvicina ai volti, incorpora i movimenti con quelli della camera, respira la stessa ansia e gli stessi istanti di liberazione delle protagoniste. Una prossimità, spesso impudica, che segue logiche sensoriali.

Più vicino a Cassavetes che non a Loach, Savage crea uno spazio utile affinché la scrittura delle donne al centro di “I am” possa manifestarsi come interpretazione delle proprie vite, attraverso l’espressione assertiva della volontà e un veicolo emozionale che precede la ragione, se intendiamo quest’ultima come un codice già impostato politicamente.

Dalle attrici coinvolte, Savage coglie spesso inaspettate alterità. Se non è sempre la relazione evidente con un nonluogo come il mare, dove Ruth accorda il proprio sentire, oppure il salto percettivo che rivela le dislocazioni temporali di Tara in The Escape, ma anche il deambulare sospeso della stessa Gemma Arterton nel bellissimo videoclip diretto per Jesse Ware, sono momenti impercettibili che in attrici duttili e libere come Samantha Morton e Lesley Manville, rivelano epifanie e consapevolezza, attraverso la geografia possibile dei volti.

Un esempio contratto, per durata e immediatezza, è il già citato video di Remember Where you are, con una Londra notturna filmata il 14 febbraio del 2021 durante il lockdown britannico. Mentre la sovrapposizione tra politico e personale saldata nelle liriche di Jesse Ware restituisce una resistenza individuale al domicilio coatto e alla separazione dell’Inghilterra da una visione comunitaria, Gemma accoglie i riflessi elettrici della città sul suo volto. Capace con il passo di evidenziare improvvise rivelazioni, materializza fantasmi, forse ricordi o prospettive future. Immersa nella morfologia stessa dello spazio plasmato dalle luci, domina a un certo punto la stessa città, come luogo collettivo, ma strettamente personale. I am Gemma.

E insieme a lei, le tracce di un cinema purissimo, al di là e oltre gli schermi.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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