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I Am the Pretty Thing That Lives in the House di Osgood Perkins: recensione

Lo sguardo di Perkins si sofferma sugli oggetti di arredamento, le stanze svuotate da qualsiasi presenza umana, gli elementi di una casa nel tempo dove i gesti sono sconnessi dall'energia motoria che li ha generati. Inabissati in un orizzonte temporale compresente, dove senso esterno dello spazio e intuizione interiore vengono incorporati nei geroglifici dell'inanimato. L'approfondimento su "I Am the Pretty Thing That Lives in the House", il secondo lungometraggio di Osgood Perkins

One need not be a chamber—to be haunted—
One need not be a House—
The Brain—has Corridors surpassing
Material Place—
(Emily Dickinson)

Lily Sailor, infermiera specializzata nell’assistenza agli anziani, racconta il suo ingresso nella casa della signora Blum, già da morta. La prima voce che introduce I Am the Pretty Thing That Lives in the House sovrappone, apparentemente, le funzioni del narratore interno con quello onnisciente grazie ad un procedimento simile a quello che ha dato vita a personaggi come Lester Burnham in American Beauty oppure Joe Gillis in Viale del Tramonto.
Apparentemente, perché in una casa infestata dagli spettri che l’hanno abitata, le voci sono molteplici e l’onniscienza di Lily cambia con le diverse sfalsature temporali e identitarie che i personaggi ereditano e moltiplicano, per assumere infine il punto di vista degli oggetti.
L’incapacità di sentire altro da se stesso del fantasma, mentre altrove tutto è presenza incerta ed apparente, e la potenzialità di assorbimento dei ricordi che le case trattengono, lo rivela la stessa voce di Lily prima del suo ingresso nella villa dove abita l’anziana Blum.
Con un mascherino che scruta al buio la camera dove sono evidenti le tracce di un recente trasloco, l’occhio del voyeur viene disincarnato e identificato con qualsiasi elemento inorganico dell’abitazione stessa. La casa dove al suo interno si sia verificata una morte, “non può essere comprata né venduta dai vivi, può solo essere affittata dai suoi fantasmi”.

Lily, che ha 28 anni, ci informa che non arriverà a compierne 29 da una prospettiva che è già quella della memoria intrappolata nei confini di uno spazio fisico.

I codici sono quelli della narrativa gotica post-moderna, dove il “se” già infestato di chi è sopravvissuto ad un trauma, entra in contatto con la spettralità stessa dell’esistenza.

Si attiva un livello ulteriore, quello della cornice testuale, che con un procedimento più evidente rispetto a The Blackcoat’s Daughter, colloca personaggi e spettatori entro un’esperienza intercambiabile.
L’equitemporalità tra il qui ed ora del narratore nel pieno dei suoi 28 anni e la voce lontana e disturbata dalle interferenze del sound design che la collocano in una diversa e impalpabile dimensione, rendono incerti i tentativi di ricostruzione del testo stesso, se non attraverso la comprensione di una biologia interna alla casa.
Lo sguardo di Perkins si sofferma sull’ingresso, gli oggetti di arredamento, le stanze svuotate da qualsiasi presenza umana, dove anche la piega di un tappeto vicino alla rampa di scale è sconnessa dall’energia motoria che l’ha generata. Il gesto di inciampare può essere ripetuto più volte, perché ormai inabissato in un orizzonte temporale compresente, dove senso esterno dello spazio e intuizione interiore vengono incorporati nel geroglifico dell’inanimato.

Fuori dai cardini della contemporaneità, Lily esperisce numerose declinazioni del tempo, soprattutto attraverso il contatto quotidiano con gli oggetti, i cassetti e gli elementi di un passato inconoscibile. Persino la morfologia dell’apparecchio telefonico presente nell’abitazione evidenzia una distanza abissale che attraversa più decenni e che assorbe la donna tra gli strati della casa.

La signora Blum è una scrittrice affetta da demenza senile. Alle spalle ci sono tredici romanzi gotici che Lily non ha mai letto e che non ha intenzione di leggere durante la permanenza come badante.

Quella collezione di testi ordinati su uno scaffale, sono un blocco di colore verde confuso con l’arredamento minimo della libreria; nature morte che possono risorgere solo grazie alla volontà creativa della lettura.

Quando il tempo dell’esperienza di Blum identifica l’attività quotidiana della giovane donna con il ricordo di Polly, Lily sarà costretta a confrontarsi con una presenza che transita dall’equivoco di una mente bloccata alla pagina scritta, e dalla pagina scritta a ciò che la precede: una forma di vita circolare e ritornante, spettrale come lo stesso corpo filmico.

Il fantasma di Polly appartiene a due secoli prima, per quanto la casa di Teacup Road costruita nel 1812 vicino alla città di Braintree nel Massachussets, incorpori anche i successivi.
Perkins ne materializza l’essenza con una preminenza dell’effetto ottico su quello digitale, riferendosi alle doppie esposizioni della fotografia spiritica introdotta nel XIX secolo dagli esperimenti di William Mumle: percezioni incerte, fuori fuoco, riflessi luminosi incorporei.
Il fantasma della giovane donna attraversa la casa, ma fa ancora parte di quell’organizzazione narrativa del tempo che per il momento non include Lily durante i suoi 28 anni.
L’unico modo per conoscerla passa inizialmente dalle ossessioni di Blum e dal colloquio con il responsabile della fondazione che ha assunto la giovane infermiera.

Polly quindi esiste in una remota realtà Storica di quell’abitazione e tra le pagine di “The lady in the walls”, il romanzo che Blum ha scritto su suggerimento integrale dello spettro.
Per Lily, questo può materializzarsi solo affrontando quel volume, il cui contenuto innesca una profonda disseminazione di “The Yellow Wallpaper” nel film di Perkins. Il testo a cui ci riferiamo è uno dei classici della letteratura femminista della prima onda, scritto in un paio di giorni alla fine dell’ottocento da Charlotte Perkins Gilman e pubblicato solo negli anni venti del novecento su The Modern Great American Stories.

Nel breve racconto dell’attivista americana, una donna seclusa nella residenza estiva affittata a fini curativi dal marito, introduce il tema della depressione post-partum con i colori dell’ossessione.
L’attualità politica e i diritti per cui la stessa Gilman si batte, servono per riscrivere le regole della letteratura gotica. Il luogo dell’isolamento e della coercizione domestica diventa spazio infestato da una psiche fratturata, la cui malattia è una proiezione della violenza di genere e allo stesso tempo anima la morfologia dell’inanimato. Una forma di intertestualità che identifica lo spettro, in abisso, come specchio infranto. La carta da parati gialla, detestata dalla donna, si muove, cambia disposizione dei motivi e rivela infine lo spettro di un’altra che striscia dietro le decorazioni.

La percezione soggettiva del narratore si allinea quindi con il percorso di una psiche sofferente, con la follia generata dalle diseguaglianze sociali, con lo spettro di una violenza sociale ed economica che coinvolge tutte le donne del tempo. E mentre la negazione costante della veridicità delle affermazioni prodotte dal narratore stesso, genera la spettralità del desiderio e di un’identità inespressa, la carta da parati consuma la sua identità soggettiva, fino a crearne un doppio.

Il destino di Polly è simile a quello della donna dentro la carta da parati, ma il suo riflesso procede da un fatto di cronaca nera alle pagine del romanzo di Blum, lette e rivissute da Lily.
Un transfert testimoniale circoscrive quindi l’esplosione di follia che travolge la giovane sposa nel 1812, improvvisamente soppressa dalla violenza del marito e successivamente occultata dietro le assi del muro.

L’espansione psichica dello spazio che protegge e conserva, nell’esperienza di Lily assume la forma di muffa che corrode a partire dal punto dove Polly è stata uccisa, crea sbollature sulle pareti, invade le dita della lettrice e in un passaggio dall’incubo lucido alla realtà, entrambe le braccia.

Ma la contaminazione comincia dalla foto di Blum in giovane età, pubblicata sulla quarta di copertina del volume. Lily la esplora con un dito, passando sulla collana di perle, gli occhiali e il giovane volto forse così simile al suo in quel momento. Un dito rimane macchiato da un puntino nero, polvere o forse spora che dalla parola modifica la psiche e il corpo.

Non è allora un caso il suggerimento che Perkins inserisce, ovvero che il luogo stesso sia il cuore di un metatesto. La proprietà che gestisce la casa dove Blum passerà i suoi ultimi anni di vita, è parte di una fondazione che dopo la sua morte sarà destinata ad una meritevole autrice donna.

Il nome scelto è “House of stories”, quasi per recuperare le intuizioni di Ali Smith nel suo romanzo intitolato “Hotel World”, dove l’albergo è un mondo di parole che possono svanire ed esser ricombinate, in base ad ogni voce che emerge da quei luoghi infestati.
Le altre voci, oltre al racconto di Polly, sono ovviamente quelle di Blum e di Lily, presenze nel tempo che si allineano intorno alla stessa casa, ma anche il padre di Perkins, Anthony, a cui il film è dedicato proprio in virtù di un’eredità immobiliare e attraverso una serie di agganci tra documento e immaterialità.
Quello più evidente è rappresentato dalla costante ripetizione di “You Keep Coming Back Like a Song“, la canzone originariamente scritta nel 1946 da Irving Berlin per Bing Crosby e qui proposta nell’interpretazione di Tony Perkins in un’incisione del 1958.

Da un riproduttore a cassette sempre acceso, risuona nelle stanze della casa per tutto il film, perdendo per strada il riferimento alla sorgente diegetica.
Le liriche, pensate per la colonna sonora di Blue Skies e indirizzate in quel film ad un’amore perduto, diventano elegia del tempo, eternato da oggetti e resti destinati all’oblio.
Parole, donne nel ritratto, una casa e tre morti coincidono alla fine con il presente della visione.
Come nella fotografia spiritica, lo spettro è percepibile solo attraverso il processo conclusivo gestito dai dispositivi, dove può infine lasciare una marca visiva, per compromettere le convenzioni rappresentative tra visibile e invisibile, in un meccanismo di ritorni continui tra vita e morte.

Lily del resto scorge l’apparizione di Polly riflessa nel catodo spento di un vecchio televisore, dopo un passaggio intermittente tra il rumore bianco dell’assenza di segnale.
Ma soprattutto viene assorbita dall’altra parte quando la sua pupilla diventa improvviso schermo per Polly, immagine raddoppiata della sua stessa morte.

Le parole che Perkins ricombina in una forma apparentemente ellittica all’inizio e alla fine del film, cambiano in realtà la qualità dell’osservazione, rivelando la sorgente di questa “House of stories”.

La memoria di una morte – ascoltiamo da una voce disincarnata – rimane ben impressa come un carattere tipografico sulla carta”.

Questa persistenza dei morti come sguardo concentrato sui luoghi di appartenenza viene evidenziata da quella frase terribile che allude al marcire dello spirito nella materia degli oggetti.
Parole che sottolineano le immagini già viste all’inizio del film, ripetute qui in una forma più estesa. Viene quindi rivelata la presenza di due bambini, probabilmente i nuovi ospiti della casa, oppure frammenti inconoscibili di tutte le mitopoiesi coinvolte, inclusa la nostra. Ad osservarli, come dicevamo, un mascherino mobile, lo scrutare di un occhio disincarnato, esattamente come quello di una vecchia macchina da presa, altrove eminentemente scopico che favorisce l’incontro tra visione e illusione.

I Am the Pretty Thing That Lives in the House di Osgood Perkins (Canada, USA, 2016)

Sceneggiatura: Osgood Perkins
Interpreti: Ruth Wilson, Bob Balaban, Lucy Boynton, Paula Prentiss
Fotografia: Julie Kirkwood
Montaggio: Brian Ufberg
Musica: Elvis Perkins

RASSEGNA PANORAMICA
Voto
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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
i-am-the-pretty-thing-that-lives-in-the-house-di-osgood-perkins-recensioneLo sguardo di Perkins si sofferma sugli oggetti di arredamento, le stanze svuotate da qualsiasi presenza umana, gli elementi di una casa nel tempo dove i gesti sono sconnessi dall'energia motoria che li ha generati. Inabissati in un orizzonte temporale compresente, dove senso esterno dello spazio e intuizione interiore vengono incorporati nei geroglifici dell'inanimato. L'approfondimento su "I Am the Pretty Thing That Lives in the House", il secondo lungometraggio di Osgood Perkins
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