A Sarajevo i ponti di sulla Miljacka sono nove e uniscono le rive della città adagiata fra le sue montagne verdi.
A Mostar il ponte era un robusto ed elegante arco di pietra di architettura ottomana, patrimonio dell’umanità fatto saltare il 9 novembre 1993 dalle forze secessioniste croate per tagliare vie di fuga e di sopravvivenza ai bosniaci.
Il ponte sulla Drina è il racconto epico del popolo bosniaco scritto dal premio Nobel Ivo Andric, l’ Omero slavo.
Ancora ponti in un’anonima canzone contro la guerra di vent’anni fa:
Quanti fiumi scorreranno sotto i ponti a Sarajevo / Prima che qualcuno canti, ma ci creda per davvero. / Si muore nel silenzio di un’Europa che non c’è / Si muore dietro l’angolo e solo Dio sa perché. / Muoiono i bambini mentre giocano per strada / Muoiono le madri come a Santiago o come a Praga
I ponti sono il topos per eccellenza di un’area geopolitica che ha segnato le sorti di un intero secolo per l’Europa. Tutto cominciò il 28 giugno 1914 con l’uccisione, per mano dell’anarchico Gavrilo Princip, dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell’impero austro-ungarico, e di sua moglie in visita a Sarajevo. Di guerra in guerra, in una riscrittura continua di confini e alleanze, regimi assoluti e democrazie revansciste di varia marca, si arriva al 1996, fine dell’assedio e del massacro di Sarajevo ad opera dei serbo-croati. Tutto quello che l’Europa ha vissuto fra queste due date è iniziato da lì.
Sono trascorsi venti anni dal tramonto di quella pacifica convivenza tra i quattro principali gruppi etnici, musulmani, ortodossi serbi, cattolici croati, ebrei, che aveva fatto di Sarajevo un modello di raffinata e prospera civiltà. Era il 6 aprile del 1992 quando scoppiò la guerra che la rese città martire per eccellenza. Molti l’hanno dimenticata, guerre successive hanno preteso il loro spazio mediatico, ma quel che è peggio è stata la damnatio memoriae, quella che sempre rimuove storie vergognose quando avvengono fuori della porta di casa. Il cinema, vent’anni dopo, si guarda indietro e s’interroga, chiamando a raccolta più voci per parlarne. Tredici corti di dieci minuti ciascuno elaborano la loro risposta al progetto artistico di Jean-Michel Frodon,giornalista, critico e storico del cinema.
Tredici segmenti molto diversi, frutto di fantasie poliedriche. Ogni film è un microcosmo compiuto, autonomo, unito agli altri da legami analogici che si ricompongono in unità nella post-visione, tredici processi creativi distanti fra loro ed eterogenei, alcuni di grande forza, altri più deboli, ma è un corpo totale che si muove in armonia, tenuto insieme dalle animazioni di François Schuiten e Luís da Matta Almeida.
Tra un corto e l’altro entrano in scena, su fondo dorato sopra il profilo della città e del suo fiume, due braccia che si cercano, mani che si sfiorano, si toccano fino ad intrecciarsi, a volte esplodono, ardono o si frammentano, formano un ponte umano, anch’esso instabile e provvisorio, eppure necessario, come i ponti di pietra e ferro. Les ponts de Sarajevo, presentato a Cannes 2014 nella sezione “Special Screenings”, appartiene a quei recuperi memoriali in cui la storia si decanta e si sublima in oggetto d’arte.
Se, affermava Walter Benjamin, “la storia è un salto di tigre nel passato”, l’addentrarsi in essa dello storico, e ancor più dell’artista, è soprattutto scendere nella sua interiorità, là dove soltanto può trovare lo specchio di sè.Quando il rivestimento esteriore del linguaggio verbale che copre, modifica, altera, e spesso corrompe, viene dissolto dalla fantasia dell’arte, solo allora l’uomo ha della sua storia la percezione migliore. I tredici quadri ricompongono frammenti sparsi di un secolo di vita dell’Europa e li dispongono secondo una logica nuova. La metafora trasfigura il documento, l’invenzione fantastica diventa riflessione sul reale e porta in superficie le leggi profonde del divenire storico.
La lunga storia di cui Sarajevo è stata protagonista assoluta produce così una galleria di immagini, suoni e suggestioni visive che noi percorriamo riconoscendo uomini ed eventi del passato.
Sono i personaggi celebri o le masse anonime che popolarono quelle strade, quelle case, le montagne e i fiumi, abitarono regge e tuguri, hanno nome o sono anonimi fantasmi di cui non resta nemmeno una tomba, ma è anche storia nostra e il senso della loro vicenda continua ad appartenerci.
E’ un’Europa spettrale quella che scorre, come ricorda il libro di Hermann Keyserling (Das Spektrum Europas, 1928) che la donna dell’ironico corto di Cristi Puiu legge la sera a letto senza capire niente, ma condividendo col marito assonnato pensieri di varia disumanità su ebrei e greci, ungheresi e perfino svizzeri (che, secondo lui, sarebbero tutti ebrei per via delle banche).
Fantasmi di cecchini in sovrimpressione aleggiano su scene di vita quotidiana per le strade di Sarajevo nel magnifico Riflessioni di Loznitsa. Quegli assassini tornano dal sottosuolo per ricordarci come si sparava sui civili inermi dalle alture intorno alla città. Ora guardano la vita che scorre normale, sembra che tutto si sia dissolto nel nulla.
Voci dall’oltretomba parlano di sé e delle proprie ragioni di anarchici in lotta contro sopraffazione e ingiustizia, come Gavrilo Princip, nel Testamento delle nostre ombre di Vladimir Perisic, mentre la trincea con la sua disperata follia è tutta ne L’avamposto di Di Costanzo, uno dei pezzi migliori, omaggio al grande film di Olmi ma anche piccola gemma che brilla di luce propria, impreziosita dalla splendida fotografia di Luca Bigazzi.
“Tutte le grandi guerre iniziano perché piccole guerre esistono già”, dice con presago e sconsolato distacco l’arciduca Francesco Ferdinando, ripreso in piscina fuori da oleografie e liturgie araldiche, un uomo, semplicemente, su cui pesò troppo la storia. E’ il corto d’inizio di Kamen Kalev, l’avvio della lunga traccia di cui ogni tappa è memoria da recuperare, preghiera da cantare.
Come nel segmento più alto ed emozionante, a tratti criptico ma un istante dopo di chiarezza luminosa, Il ponte dei sospiri di Godard. Ecce homo è l’incipit.
Cosa può l’arte? Scorrono in sovrimpressione “eccesso, parola, accesso negato ai morti, illusione ottica, tragedia dell’immagine”.
Come possono la parola, l’immagine, dire la vita e la morte?
Entra la voce del regista:
“Ma se il mito inizia con Fantomas finisce con Cristo. Che cosa capiva la folla che ascoltava predicare San Bernardo? / Altro rispetto a quello che diceva? / Forse. Senza dubbio. / Ma come possiamo trascurare ciò che capiamo nel momento in cui questa voce profonda penetra nei nostri cuori?”
La musica può tradurre, interpretare la realtà senza distorcerla, e così un coro potente riempie la scena dove le immagini si sgranano e la voce scompare. Segue silenzio, un attimo, quindi il grande monumento di marmo incombente della 20th Century Fox lancia i suoi fasci di luce e il film inizia. La guerra è qui (titolo). Seguono immagini da Goya. Torna la voce esterna.
“In un certo senso vedete che la paura in fondo è figlia di Dio. Si è riscattata la notte del Venerdì santo. Non è bella, no. Tanto derisa quanto maledetta e rinnegata da tutti. / Ciononostante non vi sbagliate, incombe su ogni agonia, intercede per l’uomo. / Poiché c’è la regola e c’è l’eccezione. / La cultura è la regola e l’eccezione è l’arte. / Tutti parlano di regola:sigaretta, computer, maglietta, televisione, turismo, guerra. / Nessuno parla dell’eccezione. / E’ scritta: Flaubert, Dostoevskij / E’ composta: Gershwin, Mozart / E’ dipinta: Cézanne, Vermeer / E’ registrata: Antonioni, Vigo
Oppure si vive, e allora è “l’arte di vivere”: Srebrenica, Mostar, Sarajevo. / E’ della regola volere la morte dell’eccezione. / Sarà così la regola della cultura dell’Europa, organizzare la morte dell’arte di vivere che nasce ancora. / Quando si dovrà chiudere il libro si farà senza rimpiangere niente. / Ho visto tanta gente vivere così male e altrettanta morire così bene.”
L’occhio della macchina si concentra su orrori reali presi da vicino, la vergogna e lo shock convivono nell’obiettivo. La “tragedia dell’immagine” è nel corpo della donna steso a terra circondato da fotografi a cui interessa solo la ripresa. E’ nella donna lacera che attraversa lo schermo da sinistra a destra col bimbo in braccio mentre passanti indifferenti vanno oltre. Nulla è obiettivo nell’obiettivo della macchina.
“Ma ci sono due obiettivi: / all’esterno, la materia, all’interno, lo spirito. / Consideriamoli più da vicino.”
Le note di chiusura da La Morte e la Fanciulla di Schubert accompagnano gli ultimi fotogrammi con i bambini di Auschwitz che scoprono le piccole braccia per mostrare il numero tatuato.
“Cos’è dunque successo?” si chiede Godard
Pagati forse per morire, ma non per essere fotografati…
Abbiamo ancora qualche possibilità di creare un “ponte” tra i due obiettivi, tra il materiale e l’immateriale, tra materia e spirito? Può l’occhio cinematografico catturare la realtà e farsi, nello stesso momento, sguardo etico?
“Il ponte è costruito a metà, e resterà così”chiude Godard.
Il ponte dei sospiri
Ma si può ancora esorcizzare il silenzio e una frase breve può ancora essere detta.
E’ nell’ Album di guerra di Ajda Begic:
“Oggi sono pesante come una pietra, io che ero come una foglia”
La donna ha dovuto bruciare le sue adorate scarpe rosse per scaldarsi durante le fredde giornate dell’assedio.
Je vous salue, Sarajevo