Nell’adattamento che Paul Schrader ha elaborato da “L’ultima tentazione di Cristo” di Nikos Kazantzakis, per la versione cinematografica diretta da Martin Scorsese, c’è una sequenza aggiuntiva rispetto al romanzo, dove Gesù estrae il cuore grondante sangue dal proprio petto e lo mostra ai discepoli invitandoli a seguirlo nel suo percorso verso la redenzione.
Frammento di potente presenza fisica, dove il corpo improvvisamente smembrato, mostra quel punto di condensazione culturale, religiosa e anche politica, ripensando l’iconografia più conosciuta del Sacro Cuore attraverso il dissidio bruciante tra azione e meditazione, corpo e spirito.
Sul primo vorrei soffermarmi, perché nell’analisi critica che sovente prende le mosse in modo schematico dall’abusatissimo “Il trascendente nel cinema“, folgorante saggio scritto da un giovane Schrader appena uscito dal seminario, si dimentica quanto nell’opera dell’autore statunitense l’esperienza incarnata e il corpo come vettore di crisi identitaria, siano elementi centrali di una sofferta analisi della mascolinità, preferendo al contrario soffermarsi sull’aggettivazione del suo cinema con un ricorrente campionario lessicale: rarefatto, ipnotico, trascendente appunto.
Senza negare quest’ultime caratteristiche, frutto dei primi studi teorici di Schrader sulla mise-en-scène elaborati successivamente nel suo cinema, vorremmo contestualizzarle in modo più stratificato e combinatorio, alla luce di uno dei suoi film meno convenzionali e più radicali, il recentissimo “Il collezionista di carte“, fresco di sala e appena presentato alla 78/ma Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.
Sin da American Gigolò, la prigione della carne si manifesta attraverso il contrasto problematico tra il percorso identitario dei personaggi e l’emergere di un’urgente alterità corporea che non può essere contenuta. Gli elementi del discorso estetico che interessano a Schrader, dal colore alla colonna sonora, dalla parola alla costruzione di una precisa architettura visuale, dalle luci all’uso di un montaggio disgiuntivo che spesso raggiunge effetti opposti all’ipertrofia cinetica praticata da Scorsese, sono dispositivi che contribuiscono a costruire una progressiva alterazione percettiva, capace di generare un distacco doloroso e spesso non riconciliato tra l’occhio e il corpo.
La visione, nel cinema di Schrader, da una parte viene caratterizzata da una precisa geometria dello spazio che tende verso la cancellazione degli elementi costitutivi, in virtù del suo stesso rigore essenziale.
Ne “Il collezionista di carte“, William Tell vive in una camera dove i mobili sono coperti ermeticamente da lenzuola bianche. La riduzione della componente cromatica fa da contraltare alla stanza abitata dal giovane Kirk, dove il caos regna. “Vivi in questo modo?“, si diranno reciprocamente.
Questo accecamento della sorgente primaria dell’immaginario soggettivo, che da Hardcore in poi è una costante, se si intende il viaggio dei personaggi Schraderiani entro un mondo già irrimediabilmente infestato dalle immagini di consumo che procede dalla saturazione luminosa della città, affligge Padre Toller in First Reformed nella sua esperienza mediata del mondo che erompe da un notebook e si salda con quell’infrangersi di idoli che la lettura attenta di Thomas Merton gli suggerisce.
William Tell, nella prima esperienza con il carcere, si affida ai pensieri di Marco Aurelio, che Schrader dissemina lungo il film più per consonanza: “Pensieri, fantasmi della mia mente, come siete venuti? Andatevene, in nome di dio“. L’introspezione del più mite tra i persecutori dei cristiani nel lungo periodo trasformativo della sua vita è il primo genoma dell’espiazione per William e quello che gli consente di mantenere un diario personale; fil rouge di una vasta letteratura mistica che al regista americano interessa come reagente filosofico contro la produzione corrente di immagini.
John LeTour, ne Lo spacciatore, scrive le sue memorie su un quaderno nell’ultima fase della sua carriera spesa nel sottomondo criminale e confessa che l’inizio di un diario corrisponde con la fine di un’attività. Nello scambio costante di denaro che passa di mano in mano, tra dose e dose, Schrader rilegge e trasforma il suo amore per Pickpocket di Robert Bresson con un lessico non direttamente bressoniano. Ciò che rappresenta un motivo ricorrente, “un film su un uomo e la sua stanza“, si allontana, secondo lo stesso Schrader, da qualsiasi tentativo di plagio: “Potrei rifare Pickpocket seguendo ogni inquadratura, senza plagiare Bresson” (“A Postscript From Paul Schrader”. Film Quarterly 34.4 – Estate 1981, Pagine 8-13).
Non è solo la sequenza conclusiva di Pickpocket, che in forma combinatoria attraversa più di un film, da American Gigolò, passando per Lo spacciatore, fino alla forma espansa ne Il collezionista di carte, ma anche le modalità con cui il cinema del trascendente possa gettare una luce inedita sulle forme di defamiliarizzazione del corpo elaborate da Schrader, nel contrasto alienante tra personaggio e ambiente, pulsioni della carne e isolamento.
La sconnessione tra gesto e mondo, reiterazione e tempo sociale che coglie i primi eroi bressoniani isolati dall’esistente attraverso la scomposizione di alcune parti del corpo, come per esempio il movimento funzionale e “l’intelligenza delle mani” in Pickpocket , vengono ricombinate da Schrader con l’intenzione di generare un distacco tra corpo e personaggio, gesto e vita emotiva. Gli elementi di cui si serve sono più complessi rispetto ad un prototipo culturalmente cruciale o all’adesione tout court ad un modello preciso, perché includono numerosi aspetti legati anche alla rappresentazione del corpo, all’interno di una cornice ampia del cinema americano, dagli anni ottanta sino ad oggi.
Il corpo di Richard Gere ri-scritto dai vestiti di Armani, con una modalità che sovverte le convenzioni scopiche di quegli anni, introduce un’ambiguità sessuale mai direttamente esplicita, ma affidata all’insieme dei dispositivi visuali e sonori orchestrati da Schrader insieme ai suoi collaboratori, basta pensare al lavoro di Ferdinando Scarfiotti sulle scenografie di questo film e su Cat People, dove gli ambienti e le location dal vero vengono trasformate in set, con un surplus di iperrealismo che contribuisce ad accentuare il senso di distacco e spossessamento dei personaggi Schraderiani.
Lo specchio dove il corpo si replica, frammenta e alla fine trasforma, subisce un trattamento estremo in Mishima, la cui figurazione disintegra e reintegra altri corpi, come quello di San Sebastiano, nella replica del set allestito dal fotografo giapponese Eikoe Hosoe nel 1962. Il corpo è anche quello che promana dalla psiche dello scrittore e poeta giapponese, da quella dei suoi personaggi e dalla ricombinazione Schraderiana nella frammentazione del corpo filmico stesso, costituito da numerosi registri, dispositivi e forme del racconto.
Lo spacciatore (Light Sleeper) è il film che più si avvicina a Il collezionista di carte, tanto da sembrare apparentemente una sorta di variazione su temi e personaggi legati al film interpretato da Willem Dafoe e Susan Sarandon.
Nell’ultimo film di Schrader l’avvitamento è in realtà più complesso e il minimalismo del suo cinema, inteso anche in termini musicali, all’interno di un’architettura che ammette la vertigine della ripetizione, subisce variazioni ed espansioni che conducono sempre oltre.
A differenza di Light Sleeper, la città assume una valenza ancor più virtuale e simulacrale. Non più quella degli anni novanta, ma completamente rimpiazzata dai tavoli da gioco e dai complessi di accoglienza che li circondano. Semplicemente è fuori, invisibile. Gli elementi del noir fatalista che mettevano in relazione gli spazi di una città derealizzata con il corpo nervoso e sfuggente di Willem Dafoe, vengono sostituiti dalla logica matematica del gioco e dalla capacità di intercettare i fattori casuali.
Lentissimo e meditativo nel delineare la storia dei corpi attraverso gli spazi e le ambientazioni, Schrader illumina il colore dei soldi e quello delle fiches senza quella mitologia visuale legata alla velocità dell’immagine o alla costruzione di un duello, da Casinò a Ramblers, da Maverick a Ocean Eleven. Segue invece una strada tutt’altro che convenzionale, depotenziando la costruzione della sequenza con quella reiterazione del gesto che descrive i processi di una psiche alienata.
E in fondo, dov’è la realtà nel cinema di Schrader da The Canyons in poi? Dove si materializzano i corpi? nella proliferazione di schermi, come scrivevamo, che ha sostituito l’esperienza aptica, dove soggetti eccentrici (Lindsay Lohan, Ncolas Cage, Willem Dafoe, Ethan Hawke, Oscar Isaac) improvvisamente sono sul punto di esplodere?
Gli schermi, come in First Reformed, sono ridotti e confinati all’esperienza dell’isolamento individuale, un notebook per Padre Toller, un telefonino per William Tell. Entrambi diffondono immagini che hanno una valenza psichica e interiore, mentre la realtà di questi monaci senza più uno spazio che li rappresenta, si consuma in quello di una chiesa compromessa a partire dalle fondamenta o nello spazio circoscritto dalle regole che definiscono il poker.
Mondi virtuali che si aprono improvvisamente alla meraviglia attraverso un’espansione virtuale della coscienza.
Ne Il collezionista di carte, un tunnel di luce avvolge il primo viaggio intimo di William e di La Linda, il personaggio speculare a quello di Susan Sarandon ne Lo spacciatore. Sembra quasi il Pavillon che inghiotte Mizoguchi in Mishima, spazio che separa il desiderio dai corpi e lo proietta verso una dimensione psichica.
L’ascolto della voce interiore sembra possibile a patto di scacciare tutti i pensieri, come scrive Marco Aurelio, che per William hanno la forma dell’innesto violento: tutti i flash che arrivano da un altro spaziotempo, quello dell’orrore consumato nelle celle di Abu Ghraib in Iraq, con i corpi ricoperti di merda, le torture reiterate, il caos che ottunde vittime e carnefici.
Mentre i casinò interstatali e costieri vengono fotografati da Alexander Dynan riducendo lo sfarzo sul piano del rallentamento percettivo, le sequenze che ricreano la prigione irachena sfruttano la tecnologia VR per produrre un espansione dell’immagine a 360 gradi, che in termini bidimensionali risulta nell’appiattimento equirettangolare del frame. Immersività, ma allo stesso tempo deformazione onirica. Prossimità e distanza raggelata dell’immagine virtuale allora combaciano, per creare una sovrapposizione straniante tra la violenza sui corpi e la diminuzione di responsabilità del nostro sguardo.
Un’immagine politica assolutamente pregnante rispetto a quella che è la morfologia culturale della condivisione, la stessa stigmatizzata da Byung-Chul Han (tradotto in Italia dall’ottimo Simone Buttazzi) quando parla di “venefico narcisismo digitale“.
Quest’immagine è allora inedita e comune, dirompente e vicina a quell’insieme di esperienze visuali che abitiamo in rete, da quella videoludica alla morte in streaming.
Ancora una volta, l’unico modo per uscire da questo dissidio e restituire senso ad una realtà frammentata è riappropriarsi del corpo per sanare lo spirito, gonfiarlo con un carico di esplosivo oppure renderlo nuovamente soggetto sacrificale, sul confine pericoloso tra morte e rinascita.
William Tell, alla fine, potrebbe avere in mano il cuore strappato dal petto del maggiore John Gordo, interpretato da Willem Dafoe. Come il cristo di Scorsese, invece, brandisce il proprio, per compiere quello “strano cammino” che ha dovuto percorrere per giungere fino all’espressione di un sentimento, fuori dall’ascesi matematica del gioco.
Quell’avvitarsi e ripetersi di un frammento bressoniano ormai totalmente irriconoscibile rispetto alla sua origine, viene decostruito e ricostruito in un’espansione estrema della durata che continua anche dopo i titoli di coda.
Toccarsi, oltre gli schermi.