giovedì, Novembre 21, 2024

Il labirinto del silenzio di Giulio Ricciarelli: la recensione

Presentato a Toronto 2014 e candidato agli Oscar 2016 per la Germania come Miglior Film Straniero, Il labirinto del silenzio è opera degna di attenzione per l’eleganza sobria della messa in scena e l’inesausta attualità nel riproporre una lettura non convenzionale del concetto di “banalità del male”.

Il silenzio, quello dolente delle vittime e quello scellerato dei colpevoli, è la cifra della storia raccontata da Giulio Ricciarelli, regista milanese naturalizzato tedesco, al suo primo lungometraggio dopo una lunga carriera di attore tutta in Germania. Storia di “normalità del bene”, Il labirinto del silenzio ha il merito di percorrere strade finora poco battute nella pur immensa mole di opere sulla memoria della Shoah e di farlo con un racconto che cattura con misura l’attenzione, dando giusto spazio alla riflessione e all’emozione.

Fondendo fiction e realtà, Ricciarelli affianca a figure storiche di riferimento come il giornalista Thomas Gnielka e il procuratore generale del distretto di Francoforte Fritz Bauer (nel film Andrè Szymanski e Gert Voss) il giovane procuratore Johann Radmann (Alexandre Fehling) sintesi dei tre procuratori reali che al tempo stanarono, fra mille difficoltà, un buon numero di nazisti annidati nella vita pubblica, aprendo il cosiddetto “secondo processo di Auschwitz”.
L’impatto fu forte e le nuove generazioni cominciarono a chiedersi chi fossero realmente i loro padri.

Dopo Norimberga e il processo Eichmann a Tel Aviv, quest’ultimo, celebrato a Francoforte sul Meno dal 1963 al 1965 con giudici esclusivamente tedeschi, fu il primo vero confronto della Repubblica Federale con il suo passato nazista. Per la prima volta il popolo tedesco fu chiamato a testimoniare contro il popolo tedesco, prendendo coscienza di una vicenda con la quale, in vario modo, tutti erano compromessi. Con il loro impegno nella ricerca della verità, i tre giovani procuratori di Francoforte diedero la risposta più diretta alla domanda che Bauer aveva posto senza mezzi termini:
Cosa è successo ai nazisti in Germania tra il ’45 e gli inizi degli anni ’60?”. Se la banalità di cui spesso il male si ammanta nel suo nascere, crescere e ramificarsi ne rende difficile l’individuazione, esiste però un male nient’affatto banale che è il silenzio indifferente, se non addirittura complice, di cui si alimentò, nel dopoguerra, la convinzione che i conti con il nazismo fossero ormai chiusi.

Negli anni Cinquanta l’Europa stava rinascendo dalle rovine della guerra e la Germania cercava di archiviare senza troppi traumi il processo di “denazificazione” messo in atto subito dopo la sconfitta sotto il controllo degli Alleati.
Nel clima di euforica crescita, grazie soprattutto all’intervento massiccio degli USA (vedi Piano Marshall), l’economia capitalista della Germania occidentale riprese vigore e i centri del potere, ampiamente compromessi con il Terzo Reich, non gradirono si scavasse troppo nella memoria.

La nascita della DDR, inoltre, costrinse a riscrivere la mappa delle alleanze internazionali, l’Unione Sovietica divenne il nemico da tenere a bada, priorità nuove si fecero strada e il passato, benchè recente e colmo di orrore, venne archiviato.
La politica del governo Adenauer, infine, chiuse il cerchio con una clemenza verso gli ex nazisti così smisurata da lasciare che riprendessero i loro posti chiave nelle nuove strutture politiche, amministrative e imprenditoriali, così che attività di ogni genere e livello svolte prima della guerra tornarono nelle loro mani. Per i gerarchi più esposti e incriminabili sfuggiti a Norimberga si aprirono, infine, corridoi privilegiati di fuga verso il Sud America, dove fu quasi impossibile rintracciarli. Il resto è storia nota.

Di Bauer, eroe sconosciuto che nel 1957 collaborò con il Mossad alla cattura di Eichmann, si occupa anche, in parallelo, Der Staat Gegen Fritz Bauer di Lars Kraume, Prix du Public UBS quest’anno a Locarno, ottima pellicola che ci auguriamo arrivi anche sui nostri schermi. Terzo protagonista del film è il giornalista Thomas Gnielka, figura integra e leale di idealista anarchico che fa da ponte tra il procuratore Radmann e Simon, un pittore ebreo sopravvissuto ad Auschwitz dove ha perso le due figlie gemelle, cavie di Mengele. Simon è in possesso di documenti riguardanti un’ex guardia del lager, Alois Schulz, riconosciuto per caso nel cortile del liceo della città dove insegna Tedesco e Storia.
L’inchiesta di Radmann parte da lì e svelerà scenari inaspettati che solo il coraggio e la determinazione di pochi uomini non permisero si perdessero nelle pieghe profonde della storia.

Facce di tranquilli borghesi sfileranno davanti al suo tavolo, chiuse nel silenzio criminale di chi solo dieci anni prima uccideva esseri umani inermi nei campi di Auschwitz, e le testimonianze raccolte faranno precipitare nell’orrore i tranquilli, asettici corridoi della Procura di Francoforte. Supportato dall’appoggio incondizionato di Bauer, Radmann accoglie la spinta solidale che il dolore silenzioso di Simon ha provocato in lui, e decide di combattere contro l’altro silenzio, quello di una nazione in gran parte ignara ma anche in parte nient’affatto disposta a riconoscere le proprie colpe.
La Germania del giovane Radmann vive infatti come se nulla fosse mai accaduto, eppure solo dieci anni prima Rossellini filmava le rovine ambientali e morali di una Berlino spettrale, e le immagini di Germania anno zero che ritraevano una città a pezzi e un popolo miserabile perso fra le macerie furono testimonianza insuperata della pena che si abbatte su colpevoli e innocenti.

Un grave errore che allora Rossellini non commise fu di illudersi che ci fosse una giustizia nella storia, e così il piccolo Edmund, alla fine del suo doloroso peregrinare nella devastazione, coprendosi gli occhi con la mano si butta giù da un palazzo diroccato. Gesto di lucidità disperata e profetica se, solo dieci anni dopo, alcuni ignari coetanei frequenteranno le scuole con un professore ex SS. Un caso? Una colpevole svista nel disordine amministrativo di quegli anni?
Forse, ma a Norimberga fu processata solo un’esigua minoranza di criminali di guerra, mentre le tracce di tutti gli altri sparirono e la memoria divenne sempre più sfocata. “Questo è un labirinto” dice Bauer a Radmann “ non si perda”.

Labirinto del silenzio” è allora figura quanto mai adeguata per indicare quel disorientamento che per anni rese difficile accertare ed accettare la verità di quanto era accaduto. Se, diceva Borges: “Un labirinto è un edificio costruito per confondere gli uomini; la sua architettura, ricca di simmetrie, è subordinata a tale fine”, il silenzio, quello dei colpevoli e quello delle vittime, fu il suo guardiano. Ma anche se il male può rivestirsi di forme banali e confondere, mimetizzandosi, non mancavano riscontri oggettivi e cataste di documenti che parlavano con molta chiarezza di connivenza da parte di poteri forti e complicità nel favorire fuga o reinserimento nella vita sociale e lavorativa di SS ormai in disarmo e nazisti di ogni ordine e grado. Quello che mancò fu la volontà di servirsene, per tante ragioni, non sempre confessabili. Il Procuratore Radmann, in una sequenza memorabile, è condotto dal sarcastico ufficiale dello Stato Maggiore Americano di stanza in Germania nel caveau che raccoglie i faldoni riempiti dai nazisti con cura meticolosa.
Ordine e organizzazione innanzitutto, anche in questo i nazisti furono insuperabili, e migliaia e migliaia di carte, liste infinite di nomi, file interminabili di scaffali, documenti dello sterminio raccolti con ordine scrupoloso e fanatico fecero riemergere dalla polvere la memoria della Shoah in tutta la sua efferata grandezza. La testimonianza dei pochi sopravvissuti fece il resto, quando ebbero la forza di parlare.
E’ una lunga, terribile sequenza di gesti e parole senza suono quella dei testimoni di Auschwitz che raccontano la loro storia. “ Sono individui tornati dall’aldilà della soglia del crematorio – dice Lanzmann in ShoahErano tutti destinati a morire e sono sopravvissuti per un miracoloso concorso di coraggio e di fortuna. Ne sono coscienti al punto di non dire mai “io”. Sono i portavoce dei morti”. Negli sguardi di chi ascolta c’è l’orrore, la pietà e soprattutto l’urgenza di un’assunzione di responsabilità rispetto ad un male troppo a lungo ignorato, rimosso o colpevolmente negato.
Quello che Bauer e Radmann vogliono è la fine del silenzio, esattamente quello che auspicherà un altro segugio della memoria come Claude Lanzmann: “Se un superstite si mette a piangere si pensa – Silenzio, non spingiamoci oltre, rispettiamo la sua sofferenza – Io no, io continuo. Soprattutto non volevo il silenzio. Shoah è un film che restituisce la parola, che dissacra ma risacralizza a un altro livello, molto più profondo: un livello di verità”.

Ancora oggi le parole di Bauer :“Dieci milioni di SS non si polverizzano” suonano come appello e condanna.
Certo le SS non si polverizzarono, ma i settanta anni trascorsi da allora hanno dimostrato in molti modi quanto silenzio possa scendere sulla storia e quanta erba rinascere sui prati di Auschwitz. In questa prospettiva fanno riflettere le parole che Edgar Reitz fa dire a Glasich, voce narrante in Heimat – Eine deutscke Chronik in elf Teilen:

In duecento anni [la Germania] non è cambiata quanto nei dieci anni successivi alla fine della guerra”.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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