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Il lago delle oche selvatiche di Diao Yinan: recensione

Spazi mobili – luce cangiante e mutevolezza semantica – si accavallano nella danza tra corpi e macchina da presa; colori e zone d’ombra dell’immagine investono di carica emotiva quelle poche, opache e ambigue parole che, nei pressi di una stazione, coperte a intermittenza dal rumore dei treni, si scambiano Zhao e Liu nel tempo immobile del loro primo incontro. Lui è un criminale in fuga sulla cui testa pende una ricca taglia, lei è una “bagnante”, prostituta appartenente al giro del lago delle oche selvatiche, non-luogo onirico attorno al quale gravita una periferia altrimenti senza centro. Zhao e Liu intrecciano a ritroso le trame dei loro percorsi fatalmente legati verso un epilogo di reciproca – nei limiti dell’ineluttabile – salvezza.

Diao Yinan, regista della “sesta generazione” cinese già felicemente noto per il precedente Fuochi d’artificio in pieno giorno, condensa nella somma di poche inquadrature, e nella giustapposizione di queste con il montaggio frenetico che segue a mettere in scena la morbosa gratuità della violenza, tutto il peso specifico del suo cinema. Un cinema già maturo, forgiato romanticamente sulla passione sfrenata per il noir americano anni ’40, come pure inevitabilmente sulle contemporanee e mutue contaminazioni, dentro e fuori dal genere, tra oriente e occidente dall’una all’altra longitudine cinematografica. Così la fascinazione per il valore chiaroscurale del bianco e nero che passa attraverso la splendida fotografia notturna di Dong Jingsong incontra l’estetica al neon di tanto cinema asiatico: se siamo dalle parti di Zhangke per quanto riguarda la rappresentazione della realtà suburbana, è Kar-wai il modello più evidente per fluorescenze epifaniche e virtuosismi, entro una parabola che procede al contempo da Hitchcock a Refn.

Nel lago delle oche selvatiche l’artificialità più spudorata dell’illuminazione elettrica penetra allora la notte plumbea, vi produce uno squarcio doloroso che sublima l’inquadratura dal figurativo al figurale. Chissà se, a un certo punto – un gufo, una tigre – ci si trova in uno zoo o nel dominio dei simbolismi e dell’astrazione: la ferinità di una caccia all’uomo in cui tutti sono contro tutti, forse la chiaroveggenza di una luce in fondo all’abisso, in definitiva il primato dell’immagine sull’impotenza della parola, inadatta ad esprimere il complesso, il dubbio, l’equivoco.

La riflessione sulla problematicità della società cinese in cui mafie e polizia giocano la partita con le stesse regole e l’unica legge che conta è quella dell’onore, Yinan la sviluppa tutta lavorando dunque sul livello del visivo, in un discorso che già da principio va oltre il contingente per farsi cinema puro. Zaho e Liu, si diceva, la modularità del profilmico e la regia demiurgica: è tutta una questione di prossemica tra le forze in campo, tra le forze dentro e fuori dal campo. La definizione dei rapporti avviene nel movimento, la tensione cresce al mutare delle distanze tra i corpi e tra i corpi e i luoghi. Così pure nella progressione sulla scala dei piani le figure mutano di segno e acquisiscono un di più di significato. Come indagati dalla lente di uno zoom – che solo in un’altra occasione, indicativamente, è tale – i pilastri della stazione si fanno blocchi d’ombra a tagliare lo schermo, i corpi in mezzo al lago guadagnano una fisionomia surreale, le moto in lontananza preparano all’efferatezza di un delitto di cui non è ben chiaro chi siano i carnefici. Avvicinarsi per vedere meno, avvicinarsi per vedere meglio, cogliere uno spessore che con tanta evidenza appartiene alla realtà quanto rimane fuori dal campo metafisico dell’immagine.

La stasi di un dialogo tra ombre è allora l’estrema sintesi di un moto perpetuo e circolare che è sempre insieme fuga e ricerca, che suggerisce l’intercambiabilità degli attori oltre all’impossibilità di estirpare quel mostro incorporeo che a partire da Düsseldorf percorre i muri delle città e la storia del cinema.

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