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Il ponte delle spie di Steven Spielberg: la recensione

È davvero uno specchio quello che produce tutti i riflessi nell'ultimo, bellissimo, film di Steven Spielberg? Spielberg gioca continuamente elaborando sulla struttura del cinema classico che ama (Capra, Ford, Hawks) un livello conversazionale che oscilla tra motto di spirito e un'idea di cinema sempre più rara, dove l'immagine è chiarissima e allo stesso tempo aperta a molteplici possibilità rispetto al suo significato letterale.

Rudolph Abel (Mark Rylance) è intento a dipingere il suo autoritratto, mentre viene inquadrato attraverso il riflesso di questa doppia immagine restituito dallo specchio che gli sta di fronte.

Una relazione percettiva che sembra ripetersi nei rispecchiamenti che attraversano tutto l’ultimo film di Steven Spielberg ma con un procedimento non così simmetrico come può sembrare. Di quell’immagine palindroma rispetto alla realtà rimane appunto una rifrazione, un’eco che rimbalza altrove e quando non ne sospende il senso, la muta in qualcosa di diverso.

Prima ancora che Abel sia catturato per la sua presunta attività come spia Sovietica negli Stati Uniti del 1957, lo vediamo trafficare “en plein air” con una moneta dentro la quale si nasconde un foglietto cifrato di cui non conosceremo mai il contenuto, nonostante l’esame ottico dello stesso venga filmato in dettaglio da Spielberg. Un oggetto simile ma con un punteruolo avvelenato all’interno sarà consegnato nelle mani di Francis Gary Powers (Austin Stowell); da utilizzarsi nel caso venga catturato dai sovietici durante una ricognizione aerea sopra il territorio nemico. Anche in questo caso ad essere esasperata è la posizione cruciale dell’oggetto, pretesto narrativo per puntare sull’aspettativa, salvo poi depotenziarla, deviarne il significato o scoprire che la scatola è vuota, come per i Mcguffin hitchcockiani.

Su questi motivi interrotti, ma che allo stesso tempo si moltiplicano per contagio, come il raffreddore perenne che colpisce Abel e poi si estende a tutti i personaggi incluso l’avvocato Jim Donovan (Tom Hanks) quasi ad accomunarli nella più comune e grottesca delle fragilità, Spielberg gioca continuamente elaborando sulla struttura del cinema classico che ama (Capra, Ford, Hawks) un livello conversazionale che oscilla tra motto di spirito e un’idea di cinema sempre più rara, dove l’immagine è chiarissima e allo stesso tempo aperta a molteplici possibilità rispetto al suo significato letterale, basta pensare alla simmetria rovesciata che sovrappone lo stesso punto di vista mentre inquadra un gruppo di fuggitivi freddati nel tentativo di scavalcare il muro di Berlino, e quello stesso movimento nella corsa di tre ragazzini che oltrepassano la rete di un cortile americano.

La stessa tensione combina commedia e noir nello scambio alla frontiera tra est e ovest. Mentre Abel informa Donovan sui due gesti possibili a cui associare la sua salvezza o al contrario una condanna a morte, i negoziati paralleli con Wolfgang Vogel (Sebastian Koch), l’avvocato impiegato dalla Stasi e più volte citato nelle opere di John le Carré, vengono liquidati da Spielberg con una stretta di mano negata. A questa gag si contrappone la scomparsa di Abel nella notte, seduto sul sedile posteriore dell’auto russa, senza che ci sia alcuna possibilità di conoscere il suo reale destino. Come nella sequenza di Schindler’s List dove la sedia posta sotto ai piedi di Amon Goeth viene presa a calci più volte per ultimare l’impiccagione dell’ufficiale nazista, il regista americano sovrappone la cornice situazionale della commedia alla tragedia più oscura, puntando alla persistenza del punto di vista come unica possibilità di interpretazione della Storia, dalla ricerca di un possibile stato di diritto che torni a fondare il dialogo e la verità oltre la ragion di stato, fino alla dimensione ottica che si sovrappone a quella testimoniale dello sguardo “puro” senza alcuna mediazione.

La dinamica della scoperta rimane sempre al centro del cinema di Spielberg, sia che si tratti dello sguardo gettato oltre l’orizzonte di un binario sul quale viaggia un treno in corsa, agente di orrore o al contrario di profonda commozione, sia che questo stesso movimento venga allineato a quello di un carrello che attraverso i resti di una colazione ministeriale ci riveli i segni del potere. A questa flagranza, come accadeva in Catch me if you can, si contrappone il ruolo ambiguo della documentazione e di tutti quei segni legati alla rappresentazione. Dai grandi sistemi ottici posti sotto gli aerei per fotografare il suolo nemico al ritratto ad olio come connubio tra Storia e irriducibilità individuale, Spielberg rileva la presenza di una verità altrimenti indicibile, proprio in quel crocevia che può consentire una sovrapposizione con la sua stessa falsificazione simulacrale frutto di un punto di vista più vero del vero, come un vasetto di marmellata acquistato all’angolo. Più di uno specchio allora,  il chiasmo come incrocio tra immaginazione e Storia.

RASSEGNA PANORAMICA
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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
il-ponte-delle-spie-di-steven-spielberg-la-recensioneÈ davvero uno specchio quello che produce tutti i riflessi nell'ultimo, bellissimo, film di Steven Spielberg? Spielberg gioca continuamente elaborando sulla struttura del cinema classico che ama (Capra, Ford, Hawks) un livello conversazionale che oscilla tra motto di spirito e un'idea di cinema sempre più rara, dove l'immagine è chiarissima e allo stesso tempo aperta a molteplici possibilità rispetto al suo significato letterale.
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