Questo atto unico nella storia professionale di Luigi Di Gianni, essendo l’unico film per il cinema espressamente di finzione, proviene da un altrove. Un altrove storico, culturale, logistico persino, del pensiero. Un prodotto collocato saldamente al tempo che l’ha visto produrre, al contesto che lo ha generato e, proprio per questo, infinitamente prezioso: perché parla all’oggi attraverso una grammatica antica, tale solo come può apparire quella dell’avanguardia, una volta che i suoi prodromi si sono radicati e fatti stilema.
Cosicché, la visione de Il Tempo Dell’Inizio a quarant’anni dalla sua genesi, diviene, non solo atto di recupero, non solo riscoperta di un metodo di studio applicato alla settima arte come non è più possibile vedere ma osservazione sul cinema tutto, sul senso della rappresentazione, sulla forza della messinscena. E, soprattutto, in prospettiva storica, un’universale allegoria sui meccanismi del potere, sullo sfaldarsi dell’ideologie al cospetto di questi e, in special modo, sulla sostanziale dannazione dell’uomo, impossibilitato alla fuga dalla sua stessa dannazione.
Una lenta parabola sulla follia dei sistemi, resa in virtù di un linguaggio posato, distante, denso, legato di pretto alle consuetudini dei circuiti alternativi del cinema e del teatro sperimentali dei ’70. Un approccio serio, sinanche serioso, che poco concede alla facile fruizione e che al contrario pretende dallo spettatore una disposizione attenta, partecipe, così da completare attivamente nella visione, nell’interpretazione, nella decodificazione di tutti i suoi segni, un confronto diretto con l’autore e con ciò che egli mette in scena: una danza realista ma anti naturalista (il ballo disarticolato, in maschera, nella “Casa Del Piacere”), simbolica e stentorea, come la sua stessa elaborazione. Una crasi tra fobie kafkiane e distopie da Orwell (più Fattoria che 1984), tra teatro classico e off, tra Lacan e Artaud, tra tragedia e grottesco.
Perché nelle sue macchinosità verbali, nei suoi onirismi esasperati, nel recitato sempre un passo oltre le righe, emerge la parodia nichilistica di un mondo collassato su stesso, soffocato dal caos, schiacciato dalla volontà di un uomo che non riesce o non vuole riuscire a sfuggire alla propria ansia di sopraffazione, passando sopra ogni forma di ideale, distruggendo tutto in funzione del proprio ego, del proprio benessere, del proprio potere.
La storia ha uno sviluppo lento e disorientante: David Lambda (che già dal nome tradisce la sua diretta discendenza dal Samsa del genio di Praga) si trova in un ospedale psichiatrico. Attorno a lui si muove una sorta di fiera dell’ipocrisia medica, che si esprime in lunghi dibattiti sul valore della cura, sulle forme della malattia e nel rapporto con gli stessi indifesi pazienti, approcciati alla stregua di poppanti da asilo. Lambda, per quanto imbalsamato in un mutismo pressoché assoluto non ci sta, decide di fuggire, anche soltanto con la mente ma la sua è, comunque, una fuga da fermo, è un delirio psicotico, che lo conduce in una dimensione uguale e contraria a quella che sta vivendo realmente. Si ritrova in un mondo ugualmente disperante, un non luogo arido, battuto da genti spersonalizzate ed abbrutite; mondo retto da un regime autoritario, repressivo, che, nelle sue burocratizzazzioni coatte, nelle sue trasfigurazioni e nei suoi stravolgimenti da socialismo reale, rispecchia in toto, forse anche un po’ calligraficamente, la condizione della “Cortina di ferro” pre-Solidarność e come questa, spaccata all’interno da mille contraddizioni, corruzioni su molteplici livelli, lotte intestine. Il “Capo” non è che un fantoccio, vecchio e debole, mosso da un catapanato che è l’autentico detentore del potere ed in basso resta la plebaglia, non meno feroce e degenarata.
Nel delirio di Lambda, ad ogni volto della realtà, corrisponde un personaggio nella sua fiaba distopica (primario, dottori, infermieri, ecc.) e lui, ancora una volta, nella sua afasica ed in definitiva inerte ribellione, pagherà per le scelte che non è stato capace d’imporre, pagherà come l’uomo è costretto a pagare in eterno, sembrerebbe dirsi in conclusione, mentre la guerra, atto d’infinito interesse e follia, in un cortocircuito continuo tra realtà e finzione, interno ed esterno, incombe da dietro i vetri. E lo schermo si sgretola.
Di Gianni conduce la narrazione su un contesto atipico per il cinema italiano, ieri come oggi, alterando la realtà stesa sulla pellicola con lo stesso metodo, lo stesso sguardo antropocentrico, con cui filmò le magiare lucane (Magia Lucana) con Ernesto De Martino: rimontando la realtà a proprio uso, da un lato per filmare più vero del vero, dall’altro per l’esatto contrario. Dal sottile documentarista che è, il filosofo della macchina da presa, pone un’attenzione maniacale nella ricerca di set che riportino ad un’alterazione percettiva pur nella loro sostanziale riconoscibilità; sia che si tratti del Reale Albergo Dei Poveri di Napoli, di Matera o di una qualunque altra landa rocciosa basilicatese.
Nell’attività di recupero del cinema dell’osannato regista napoletano (la Cineteca Di Bologna ha da poco rieditato i suoi documentari brevi), quindi, questa edizione ha un valore del tutto peculiare, essendo Il Tempo Dell’Inizio, vincitore pure di un Nastro D’Argento nel ’75, ormai, virtualmente invisibile. Pur se il suo autore, novantenne, è sempre in lucida attività, incrociandosi col suo nume tutelare ancora e ancora: sono gli Appunti Per Un Film Su Kafka, la riduzione televisiva de Il Processo, la sceneggiatura de Il Castello apparsa a puntate per il sito Atmosphereblog.com col quale collabora (!) ed il cui coordinatore, Valerio Monacò, è il principale responsabile dell’uscita.
Quest’ultimo cura anche l’unico extra presente, riportando a voce quanto da lui stesso scritto nelle note di copertina. Personalmente, però, non riesco a ritrovare nella pellicola quella sorta di anticipazione delle derive di Lynch, né tantomeno le accelerazioni di Gilliam e meno che mai il Kubrick che cita Valerio. Gli onirismi di Di Gianni non parlano inglese, sembrerebbero più derivare dal teatro e dal cinema sperimentale/performativo, alternativo, di quegli anni ed avendo, forse, più in comune con le irrealtà di Gian Vittorio Baldi filtrate, però, dallo stesso Pasolini del Vangelo (lo sguardo disincantato sull’arcaicità e sulla storia dei luoghi). E forse in nuce ci sono i simbolismi di un (ancor più) lugubre Ferreri e un severo e contenuto Arrabal virati espressionisti (luci, contrasti, costumi e tensione, portano inevitabilmente al Dies Irae di Dreyer).
Si è d’accordo, però, nel considerare quest’opera, certo complessa, certo antica, di esemplare e rara alterità.