Le immagini di “Sandome No Satsujin” vengono realizzate dal direttore della fotografia Takimoto Mikiy tenendo in considerazione alcune produzioni statunitensi degli anni 50 e il CinemaScope di “High and Low” di Akira Kurosawa.
Lo spazio del noir, quello che metteva in relazione volti e oggetti all’interno di un’unica inquadratura, è il seme che interessa a Kore-eda Hirokazu, anche quando occupa lo schermo con un close-up. La relazione con lo sfondo rimane fondamentale, non importa se è semplicemente una sensazione o un residuo della percezione periferica.
Quando il volto di Misumi Takashi (Yakusho Koji) occupa lo schermo lordo di sangue dopo un brutale omicidio, le fiamme del corpo appena incendiato divampano e invadono l’altra porzione. Immaginazione o coscienza? Passato con delitto o desiderio di espiazione senza colpa?
Il formato scelto da Kore-eda sembra deliberatamente “possibile”, perché nella sua unità “tecnica” tra tempo e spazio, consente una stratificazione più sottile nell’annullamento o nella messa in abisso di un punto di vista sull’altro.
Il courtroom drama, la tradizione nera occidentale e orientale, il dramma ibseniano, il cinema da camera asiatico, collidono e si negano a vicenda la possibilità di guidare il film in una direzione o nell’altra.
Quel “poco prima” o “poco dopo” la generazione di un evento, concentrazione bergsoniana che attraversa tutte le premonizioni fenomeniche nel cinema del grande regista giapponese, subiscono un congelamento all’interno dell’istituzione giudiziaria fotografata dai colori algidi di Takimoto Mikiy e dalle geometrie architettoniche che puntano all’annichilimento del pensiero.
Ancora una volta c’è una distanza di tipo fenomenologico tra il set e Kore-eda, ma che qui entra magnificamente in collisione con un sistema illogico, fuori dai fenomeni della natura e dentro i desideri predatori di quella umana.
L’efferato omicidio di cui Misumi Takashi viene accusato diventa fatto oltre ogni ragionevole dubbio per una confessione sulla quale non vengono operate verifiche. Lo stato di diritto si configura come un mostro impenetrabile dove il tempo è accecato dalla persistenza materiale dello spazio volumetrico. Le stanze degli avvocati, il tribunale, quella asettica del colloquio e un lavoro di rapporti che ha a che fare più con la diplomazia che con l’esercizio della ricerca e del diritto.
Quando altre verità emergeranno, alcune scagliate brutalmente dai media, altre legate alla minore o maggiore capacità di mentire delle persone coinvolte, il sistema giudiziario dovrà trovare un’alternativa per salvare il funzionamento di una macchina autoctona. Difesa, accusa e procura si identificano nella necessità di mantenere costante la distanza tra il popolo e il sistema; più della verità, l’obiettivo è cercarne una plausibile, tanto da delegittimare qualsiasi prova, qualsiasi testimonianza, qualsiasi elemento che contraddica le decisioni iniziali.
Di fronte all’irriducibilità del reale, la giustizia si infrange e sopprime la vita, per soppravviverle.
L’asfissia del pensiero e degli ambienti non ferma Kore-eda dal ricercare la libertà del gesto e l’infinita possibilità del segno. La storia di ciascun personaggio individua un elemento che trattiene l’indicibile: la gamba artificiale di Sakie, figlia dell’uomo assassinato, il supposto passato criminoso di Misumi Takashi, il rapporto dell’avvocato Shigemori Tomoyaki con il padre, la verità e la menzogna che si intrecciano e giungono ad un punto di non ritorno.
Quando Sakie dirà “qui nessuno dice la verità”, il film di Kore-eda assumerà un pessimismo di proporzioni metafisiche. Nel confronto più intenso tra il presunto assassino e il suo avvocato, con una scelta tanto semplice quanto intensa, la sovrimpressione dei due volti sul vetro che li separa, consente una sovrapposizione delle intezioni e della loro collocazione.
Kore-eda sfrutta spesso frasi ripetute, reverie che affiorano dal passato, affermazioni la cui ripetizione slitta la percezione del senso da un personaggio all’altro.
Se il luogo della giustizia umana, dove si paga un biglietto per assistere allo spettacolo, non è quello catartico e tragico della verità, cosa siamo, nella comprensione di un destino più grande, se non contenitori nati per assolvere la funzione della colpa e della vittima?