Marco Bellocchio non ha bisogno di rendere urgente ciò che è già nell’immaginario, deve compiere un altro tipo di gesto: rapinare l’immaginario dei suoi cristalli e rendere privato il mistero pubblico per la sua visione autoriale in primis e poi per la visione di altri. È un intervento che avviene con più investimento di rischio sulla storia documentata che sulla finzione, perché nella finzione il patrimonio è sempre già personale per l’autore; nel rapporto con il realmente accaduto del passato invece il gioco si compie con un patrimonio sapienziale esteso. Nel caso de Il traditore l’oggetto soggettivizzato è Tommaso Buscetta, il più importante pentito della Mafia. Bellocchio vuole ragionare sulla sua figura da una prospettiva personale, spogliarlo delle stratificazioni di senso già giustapposte, sviscerarne la complessità nella misura della sua visione. Il gesto di racconto è quindi non tanto un inseguimento cronachistico intorno alla piramide documentaristica legata alla sua figura, ma un mettere in forma continuo – come enunciatore sull’enunciato – attraverso marche autoriali precise e determinanti, scelte di campo, decisioni etiche ed estetiche. Come una presenza redattrice nel territorio della verità già scritta.
[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#efbc23″ class=”” size=””]Già per questo Il traditore è un film di grandioso coraggio: la modalità con cui Bellocchio si rapporta al documento è scrittura di un nuovo testo, di un nuovo lessico che trasforma l’interpretazione della realtà in una nuova realtà. Il regista osserva per fondare.[/perfectpullquote]
Questo scarto permette al film di distaccarsi di molto dalle fiacche rappresentazioni cinematografiche interessate alle trattative Stato-Mafia e gli garantisce un altro campionato, quello degli slanci visionari che risemantizzano gli oggetti presi in esame. Tutto Il traditore è infatti una macchina di senso in grado di gestire la fluvialità della storia del “boss dei due mondi” – dal momento del trasferimento in Brasile al momento di chiusura della sua vita – muovendo dai criteri (e tramite ellissi, digressioni, deragliamenti, metafore, intuizioni a guisa di lettura inedita) di ricettività emozionali che sono propri del regista. Il racconto del pentimento di Buscetta, della sua posizione nel mondo mafioso, nella realtà storica dell’Italia è traslitterato in un teorema sulla “famiglia”.
Quella personale di Buscetta, quella di Cosa Nostra e quella dell’Italia: tutte tradite, tutte traditrici. Bellocchio interpreta il suo soggetto nella dinamica di questi tre momenti, innestando la sua psicologia non in un quadro determinato – e l’interpretazione di Favino infatti spinge per la continua metamorfosi di se stesso non per la continua mimesi del reale – bensì in uno schema fluido esteso tra intimo (le sigarette, le strette di mano, i vestiti) e pubblico (la scena dell’elicottero, il montaggio nell’incontro con Falcone, il processo come teatro tragico). Il regista spalanca lo sguardo, allarga l’orizzonte interpretativo grazie alla deduzione di piccoli particolari e costruisce in due ore e mezza una rete virtuale di significati e significazioni. Il risultato è un lento avvicinamento che sembra raggiungere la vertigine del vero e non solo la tridimensionalità verosimile: lo sforzo rappresentativo e formale, tanto possente quanto maniacale nel tenere le fila di un film che a tratti dialoga anche con l’estetica e il ritmo del cinema commerciale americano e improvvisamente si fa dramma da camera, ottiene alla fine il movimento che più somiglia all’intercettazione della realtà. L’apertura della verità emozionale di un uomo, il passaggio segreto nel vicolo cieco della Storia.