Regista sud-coreano premiato a Berlino, Venezia e Cannes, noto in Francia da vent’anni, Hong Sang-soo arriva solo oggi per la prima volta in Italia. Non diversa la sorte di altri maestri di una cinematografia ignorata alle nostre latitudini, eccezion fatta per Kim Ki-Duk.
Nomi come Im Sang-soo, Lee Chang-dong, Bae Yong-Kyun, autori di autentici capolavori come Oasis, Secret Sunshine, Perché Bodhi-Darma è partito per l’Oriente?, sono praticamente sconosciuti. Lode dunque alla Tucker film per aver aperto la strada.
Hong Sang-soo ha voluto Isabelle Huppert per la parte della protagonista, attrice che ormai siede stabilmente nell’Olimpo delle grandi interpreti di un cinema per lei senza confini. Da Losey ad Haneke, da Chereau ai Taviani, Denis, Chabrol e Bellocchio, non c’è grande regista a cui non abbia regalato quell’incredibile magnetismo che emana dalla sua figura minuta e così in apparenza fragile. Con Hong Sang-soo e il suo cast, in cui è l’unica europea, l’esperienza è nuova e, non serve dirlo, densa di seduzione.
Orizzonti sfuggenti sulla costa di Mohang, a cinque ore da Seul, un set inusuale e una lingua ignota, un regista che costruisce su lei, giorno dopo giorno, un copione fondato sulla variazione. Nasce così Anna, personaggio triplice sotto lo stesso nome, che vive tre esperienze autonome e complementari, tre atti per quella che l’attrice definisce “l’ennesima variazione sul tema infinito e scosceso delle geometrie amorose. C’è una profondità celata sotto l’apparente leggerezza del film: l’eterna malinconia della donna, alle prese con il desiderio, la dipendenza, la gelosia, la solitudine”.
L’attrice gioca alla perfezione la carta del comico venato di malinconia un po’ svagata, si muove con seducente levità in uno spazio reale e simbolico insieme, trasvola da una situazione all’altra senza soluzione di continuità. Come nella sintassi musicale, il ruolo centrale è assunto dalla ripetizione e, per estensione, dalla variazione nella ripetizione.
Il plot è indefinibile a parole, tanto la materia è spumeggiante e quasi evanescente, pur rappresentando situazioni molto incardinate nella realtà. Una ragazza e sua madre arrivano a Mohang, villaggio sul mare. Per passare il tempo la figlia comincia a scrivere una sceneggiatura, e man mano i protagonisti passano sullo schermo dando vita al film. Nel primo atto Anne, regista francese, è in vacanza a Mohang insieme al regista coreano Jongsoo e a sua moglie incinta. L’uomo la corteggia discretamente sul terrazzo della casa-albergo, ma poi la moglie, che conosce molto bene il marito, si fa venire un attacco di doglie.
Nel secondo atto Anne è una francese sposata che arriva a Mohang per vedere l’uomo amato, il regista coreano Munsoo. Una volta lì stringe un’amicizia con un bagnino, mentre Munsoo ha problemi ad arrivare puntuale, e fra telefonate al cellulare, perdita del cellulare e suo ritrovamento non si capirà più chi aspetta chi.
Il terzo atto mette in scena una ricca casalinga francese. Divorziata dal marito che l’ha tradita per una donna coreana, arriva a Mohang con un’amica maestra di folklore e incontra Jongsoo e sua moglie. Ed ecco di nuovo il bagnino che esce dal mare, ancora una volta Anne gli chiederà dov’è il faro e in tutto questo rutilare di ripetizioni e sovrapposizioni Hong Sang-soo riesce anche ad infilare lo splendido cameo del filosofo zen a cui Anne vuol rivolgere domande.
Caleidoscopico intreccio di incontri e relazioni, tutto ricomincia ogni volta lì dove sembra finire, e Anna è il baricentro in continuo spostamento. La sua fisicità adolescenziale e conturbante, asettica e sensuale, è la forma costantemente sfuggente di un’esperienza emotiva simmetrica e asimmetrica insieme, qualcosa che, mutuando Barthes, si potrebbe definire frammenti di un discorso amoroso. Anne è una, ma scissa in tre parti, in una magica alchimia che solo il cinema consente.
Contemporaneamente centro e periferia, incrocio e rappresentazione di variabili indipendenti, è, soprattutto, incarnazione dell’assunto barthesiano secondo cui “il discorso amoroso è oggi d’una estrema solitudine”. Al cinema, dunque, il compito di rispecchiare con disincanto la materia fluida della vita, mobile o piatta, come quel mare di fronte al quale Anne torna continuamente, ripresa di spalle, a esclamare “Bello!”.
Hong Sang-soo crea una fresca commedia balneare, le dà il tocco magrittiano della rêverie, elabora uno script spesso surreale, miscela abilmente i registri ottenendo risultati d’incantevole leggerezza, a tratti di autentico humor. Il confine tra vita e cinema è definitivamente annullato, qui si fonda il regno delle infinite possibilità, dove può accadere che la prima Anne lasci un ombrello in un angolo di strada all’inizio e lo recuperi la terza Anna alla fine, per allontanarsi trotterellando chaplinianamente sotto la pioggia, lungo la strada solitaria di Mohang.