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In the dusk (Sutemose) di Sharunas Bartas: recensione

In the Dusk è l'ultimo film di Sharunas Bartas, scelto da Thierry Frémaux tra i titoli con il bollino di Cannes 2020. Straordinaria sintesi del suo sguardo, si ambienta nel 1948, durante la seconda fase resistenziale della Lituania contro l'occupazione sovietica. Il diciannovenne Ute si confronterà con il dubbio, la violenza e il tradimento.

La seconda fase della resistenza armata antisovietica in Lituania costringe i gruppi partigiani a spingersi nella foresta e a ridurre il numero delle singole unità. Gli anni sono quelli tra il 1946 e il 1949 e la relazione con i civili residenti si fa più capillare, tanto da garantire le attività lavorative di alcune aree e organizzare un contrasto deciso alla collettivizzazione forzata delle terre, che aveva messo in ginocchio tutta l’economia agricola. Negli anni appena precedenti, i soldati della NKVD, acronimo che indicava il Commissariato del popolo per gli affari interni, avevano già massacrato migliaia di civili, rastrellato le loro terre, derubato e svuotato le proprietà, ucciso e stuprato con la benedizione di Stalin.  Mentre l’enorme milizia governata da Suslov “normalizzava” il paese seminando terrore e violenza, con l’obiettivo di creare “una Lituania senza lituani”, le organizzazioni partigiane facevano i conti con la miseria, la stanchezza e un progressivo sfaldamento, minato dai continui tentativi di infiltrazione da parte dell’NKVD. 

Il nuovo film di Sharunas Bartas si svolge durante gli ultimi due anni della seconda fase resistenziale e in qualche modo ne descrive il doloroso crepuscolo, qualche anno prima rispetto all’inesorabile russificazione del paese, compiuta con le incessanti deportazioni di massa nei gulag e l’indebolimento della presenza etnica lituana.  

In the dusk concentra gli eventi all’interno di una fattoria, intrecciando le drammatiche dinamiche famigliari con l’attività di un gruppo partigiano accampato strategicamente nella foresta circostante. 
L’anziano proprietario terriero Pilauga, interpretato da Arvydas Dapsys, vive con una moglie malata, totalmente distante dalla vita del marito e con il figlio adottivo Ute, il cui volto è quello di Marius Povilas Elijas Martynenko, intenso come altre geografie interiori bartasiane. 

La foresta, la cui persistenza è scandita non solo dal dettaglio di alcuni epifenomeni, ma anche da un capillare lavoro di sound design, si staglia come immagine ieratica e regolata da un ciclo necessario, in contrasto con l’oscurità degli interni, mondo attraversato dalla decomposizione e dalla morte, a cui la fotografia di Eitvydas Doskus dona una serie di sfumature cromatiche all’interno di una dominante che punta alla desaturazione. 

Ad una prima parte che si svolge quasi integralmente in interni, sviluppando una dialettica impossibile tra volto e parola, secondo un tracciato sperimentale spesso incompreso che ha accompagnato gli ultimi lavori del cineasta lituano, si contrappone l’azione disgregatrice del conflitto, mentre penetra lentamente l’assetto precedente, come un incendio lento e inesorabile. 

Il modello dei tableaux vivants è ancora composizione e contenitore dove corpi, oggetti e volti trattengono la forza della vita, avvicinandosi alla qualità poetica di “Namai” e collocando quei riferimenti in un contesto storico ben preciso, ma senza disinnescare il mistero generato dalla sospensione e dalla de-realizzazione del presente. 

L’epurazione etnica operata dai sovietici cancella la Storia, una dimensione che pone le figure del film come ostaggi di un tempo uscito dai binari, ma allo stesso tempo concretamente documentale; Bartas ha dovuto operare una ricerca difficile, parzialmente desunta da ricordi e testimonianze appartenenti alla sua famiglia e dai diari dei partigiani, tutti rigorosamente scritti durante la resistenza. Emergono allora figure che abitano ancora una volta uno spazio di transizione, spossessati dalla propria narrazione.

Il dialogo crea continue disarmonie e più che in altri film del regista lituano è presente, ma nella forma di pietra durissima, parola annichilita nel dolore che diventa infine rantolo, disconnessione psichica, come nella brutale tortura subita da Pilauga che spinge la coscienza annichilita dell’uomo indietro nel tempo, nello spazio della memoria. 

Il film combina i contrasti del cinema di Bartas, dagli interni famigliari si passa agli spazi del paesaggio in cui operano i partigiani, a contatto con una natura difficile e perseguitati dal sospetto.

In una recente intervista e in seguito all’accoglienza controversa riservata al film in patria, il regista ha risposto che le critiche corrispondevano forse al desiderio di vedere sullo schermo un eroe puro e senza contraddizioni.
Il lavoro sui volti e sui gesti è tra i più intensi della sua filmografia e contribuisce a creare un connubio spesso terribile tra l’indifferenza degli elementi naturali e la terrifica fissità di questi volti radicati nella terra, confusi con la foresta stessa. 

Il dubbio e la crudeltà necessaria, le esecuzioni dei sospetti traditori, il rosario sgranato che sovrappone una preghiera con un colpo alla nuca, vengono incorporati negli eventi storici, ma allo stesso tempo mostrano la loro qualità elementale, prima della brutale violenza che dai margini dello spazio sociale, irromperà in quello domestico con incedere terribile e immanente.

L’accuratezza Storica di Bartas non è insita solo nell’incredibile ricostruzione ambientale o nello svelamento di alcune dinamiche che portano con se l’indecifrabilità dei volti, ma nella presenza tangibile di questo dolore che attraversa un intero popolo.

Ute incarna quello stato di passaggio indicibile che sperimentano tutti i personaggi del cinema di Bartas, colti nel loro viaggio tra un tempo fuori campo e uno spazio fuori luogo, ma aggiunge a questa condizione un’esperienza testimoniale, dove ogni eccedenza si manifesta davanti al suo sguardo. Quando entra nella stanza dove è stato ucciso un sospetto traditore, la macchina da presa non si sofferma sulla dinamica, per quanto la moglie cerchi di spiegarla, ma sul sangue raggrumato, sulla catalessi della composizione, sui segni inconoscibili impressi sul volto della donna, di cui non sapremo niente. 
Come a dire che nel calco della durata, nella percorribilità egli elementi scomponibili all’interno della cornice, il nitore dei dettagli coesiste con la loro indecifrabilità.

Ecco perché questo film crudele e commovente, ci è sembrata esperienza irripetibile e dolorosamente difficile da guardare.

In the dusk (sutemose) di Sharunas Bartas – Lituania – Russia – Francia 2020 – 128 min
Interpreti
: Arvydas Dapšys, Marius Povilas Elijas Martynenko, Alina Žaliukaitė-Ramanauskienė, Salvijus Trepulis, Valdas Virgailis, Rytis Saladžius, Saulius Šeštavickas
Sceneggiatura: Sharunas Bartas Ausra Giedraityte
Direttore della fotografia: Eitvydas Doškus
Montaggio: Simon Birman
Musica: Jakub Rataj

RASSEGNA PANORAMICA
Voto
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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
in-the-dusk-sutemose-di-sharunas-bartas-recensioneIn the Dusk è l'ultimo film di Sharunas Bartas, scelto da Thierry Frémaux tra i titoli con il bollino di Cannes 2020. Straordinaria sintesi del suo sguardo, si ambienta nel 1948, durante la seconda fase resistenziale della Lituania contro l'occupazione sovietica. Il diciannovenne Ute si confronterà con il dubbio, la violenza e il tradimento.
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