Quando Simon (James McAvoy), impiegato in una nota casa d’aste Londinese, si risveglierà dopo esser stato colpito alla testa da Franck (Vincent Cassell) nel tentativo di portare a termine il furto di un prezioso quadro di Goya, non riuscirà a ricordare dove ha nascosto il noto “streghe nell’aria“. Per sincerarsi che non stia mentendo, Franck pagherà Elizabeth (Rosario Dawson), una psicoterapeutica specializzata in ipnosi regressiva, per dare inizio ad un viaggio nella memoria di Simon; da qui in poi sarà possibile innestare alcuni tasselli delle memorie che legano tra di loro Simon, Franck e la stessa Elizabeth.
In trance, l’ultimo lavoro di Danny Boyle, ha una lontana origine; la sceneggiatura viene proposta al regista inglese da Joe Ahearne durante i primi anni ’90, subito dopo la realizzazione di Shallow Grave (Piccoli omicidi tra amici). Boyle desideroso di lavorarci mette in guardia lo stesso Ahearne sulla difficoltà di un film del genere per qualsiasi regista esordiente, lo sceneggiatore ha fretta e farà tutto da solo curando la regia di un film per la televisione nel 2001. Boyle tornerà sullo script, come se fosse un’ossessione non risolta, insieme a John Hodge, sceneggiatore di tutti i suoi primi film per il cinema fino a The Beach (Piccoli omicidi tra amici, Una vita Esagerata, Trainspotting, The Beach).
Le premesse dei due lavori sono quindi le stesse, ma come ha avuto modo di dire Boyle in alcune interviste: “non c’è alcun paragone, sono talmente diversi, che messi a confronto non presentano nessuna similitudine, a parte un paio di scene“.
Mentre John Hodge sembra tornato in attività dopo una lunga pausa interrotta solamente dal lavoro per The Sweeney, il film diretto da Nick Love nel 2012, ipotesi confermata dal prossimo film di Boyle annunciato, Porno, il sequel di Trainspotting tratto dall’omonimo romanzo di Irvine Welsh e di cui Hodge curerà l’adattamento e la sceneggiatura, la sensazione che Boyle sia tornato alle “origini” del suo cinema è solamente superficiale; In Trance, al contrario, sviluppa alcune idee di cinema digitale che erano state introdotte dal film più convincente diretto da Boyle fino a quel momento: 127 ore.
La radicale architettura cognitiva del film precedente si inseriva in un discorso post-filmico, attraverso l’utilizzo di diversi formati come il vecchio miniDV, le immagini tattili osservate attraverso l’occhio delle “body camera”, la memoria degli “user generated content“, lo stare a metà tra “immagine tecnica” e la resistenza “transapparatica” di James Franco che contrae tempo e memoria in un atto di resistenza creativa estrema.
Prendendo in prestito alcune definizioni sulle nuove immagini fotografiche, pensate da Wilém Flusser, ci piace pensare che In Trance riparta proprio da qui, ovvero dalla possibilità di ostacolare il “diluvio delle immagini”, costringendo l’apparato a funzionare contro se stesso, tanto che i “McGuffin”, gli espedienti narrativi e altri inneschi, non portano semplicemente da un’altra parte, ma forse da nessuna, scontentando così tutta una critica abituata alle pagelline scolastiche poco soddisfatta per i buchi neri e una logica cortocircuitata, questioni di rendimento insomma.
Nel tentativo quindi di elaborare un racconto intersoggettivo, Boyle gioca con la memoria del cinema come fosse una libreria digitale; “è come se tu traessi influenza” ha detto durante un’intervista dove gli si chiedeva in modo esplicito di commentare alcune supposte citazioni “dai film che sono nel tuo scaffale“; quasi un accesso volatile ad un accumulo RAM, un sistema che si riavvia e che trova tutte le volte un residuo, un frammento, l’argoritmo che formerà un’immagine sfuggito al controllo del dispositivo.
Superata la sensazione di un’operazione decorativa che non riesce ad andare troppo a fondo, sopratutto nei primi venti minuti coadiuvati dal lavoro di Rick Smith degli Underworld, a tratti sin troppo ruffiano, In Trance procede per innesti e non cade nella trappola Nolaniana di realizzare un film disegnato a priori sul funzionamento di un dispositivo; al contrario si prende carico del processo identitario dei suoi personaggi, scambiando traumaticamente le loro posizioni e trasformando un’apparente “quest” nel viaggio doloroso di un storia d’amore diventata irriconoscibile; dovessimo per forza cercare un piccolo filo rosso, sarebbe quello della non locabilità della memoria nel cinema di un grande autore troppo spesso dimenticato, Nicolas Roeg.