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Incatenata (The Chase) di Arthur Ripley: recensione

The Chase, uscito in Italia con il titolo di "Incatenata" è il noir di Arthur Ripley tratto dal romanzo di Cornell Woolrich "The Black Path of Fear". Radicalmente diverso dalla versione dello scrittore americano è il film più infedelmente fedele tra quelli desunti dalla sua opera.

Nel corpus filmografico che si riferisce agli adattamenti desunti dalle opere di Cornell Woolrich, “The Chase” occupa una posizione eccentrica, ma allo stesso tempo rappresenta una delle incursioni più aderenti a quel mondo pervaso d’angoscia, che nelle storie dello scrittore americano si manifesta con la dimensione di passaggio tra realtà e incubo.
Tratto da “The Black Path of Fear“, pubblicato nel 1944, fu opzionato dallo sceneggiatore Philip Yordan e venduto successivamente alla Nero Film di Seymour Nebenzal, rifondata dopo l’esilio del grande produttore dalla Germania nazista. 
Nebenzal aveva già prodotto Arthur Ripley per il dramma bellico “Prisoner of Japan“, co-diretto insieme ad un non accreditato Edgar G. Ulmer e tornerà a lavorare con lui per il secondo dei tre noir che lo sceneggiatore di Mack Sennet ed Harry Langdon, dirigerà tra il 1944 e il 1950.

Sottoposta a numerosi cambiamenti dall’attenta strategia di promozione allestita da Nebenzal, la sceneggiatura di “The Chase” si differenzierà in modo strutturalmente radicale dal romanzo di Woolrich, tanto da rovesciare la realtà nel sogno senza soluzione di continuità.

Una strategia già presente in alcuni noir contemporanei, ma che nel film di Ripley assume proporzioni sorprendentemente inedite, a causa del bilanciamento degli elementi narrativi che sbarazzandosi delle marcature tipiche utilizzate per evidenziare la dimensione mnestica e quella onirica, si confondono con la realtà fenomenologica percepita, fino ad incorporarne alcuni frammenti.

Una prospettiva rovesciata rispetto alla tendenza che circoscrive l’evento onirico nel cinema americano di quegli anni, soprattutto per la durata che “The Chase” gli dedica.

Nel romanzo di Woolrich, gli eventi cominciano in medias res, con il personaggio principale Bill “Scotty” Scott, gettato improvvisamente al centro di una situazione angosciosa. Dopo essere entrato in un club dell’Havana con una donna, durante un bacio appassionato, questa verrà improvvisamente pugnalata tra le sue braccia. I sospetti punteranno su Scotty, costringendolo a trovare rifugio nell’appartamento di una cubana soprannominata Midnight, alla quale racconterà i motivi che lo hanno condotto da quelle parti. La storia di Eddie Roman, violento gangster di Miami che controlla buona parte del traffico d’oppio, viene descritta brevemente fino all’assunzione di Scotty come autista di fiducia, la relazione clandestina con la bella e maltrattata moglie del boss e la conseguente fuga d’amore della coppia verso l’isola dell’america centrale.

Tutto il segmento a cui lo scrittore americano dedica sostanzialmente il primo di un paio di flashback tradizionali, viene anticipato e ricostruito cronologicamente nel film di Ripley, caratterizzando in forma dettagliata i personaggi del triangolo e la figura di Gino, il braccio destro di Eddie interpretato da Peter Lorre.
Un’ora di film al culmine della quale, la bella moglie di Roman interpretata da Michèle Morgan, viene pugnalata alla schiena in un torrido club de l’Havana e Robert Cummings che presta il volto ad uno Scotty in fuga, gettato brutalmente nello scantinato di un bazaar.

Solamente il brusco risveglio da una condizione angosciosa della mente lo riporterà in vita nella sequenza successiva, risignificando quello che abbiamo visto come il prodotto di un sogno paranoide, un trucco dell’immaginazione definito dal dottore militare che esamina Scotty, come fenomeno di nevrosi ansiosa.

Nello stato in cui Scotty si trova, come molti anti-eroi del cinema e della letteratura noir, i tasselli mancanti sembrano molti e mentre secondo il Dottor Davidson, il giovane si sta avvicinando alla guarigione, quello che adesso gli manca rispetto al suo ultimo “sogno” è l’inizio della storia.

I progressivi aggiustamenti voluti da Nebenzal durante la pre-produzione e quelli decisi in corso d’opera per motivi contingenti, espandono nella prima ora del film una serie di segni che alludono ad uno stato di sospensione. Lo stesso tema composto da Michel Michelet utilizzato in forma diegetica per due situazioni autonome, ma contigue se intese all’interno del medesimo sogno; l’incredibile segmento a bordo della nave, con l’oblò inquadrato dall’esterno e l’ombra intermittente che ne evidenzia la natura scopica; la canzone eseguita all’interno del club che circonda la passione dei due amanti, ma ne evidenzia la natura evanescente: “Havana, like the stars in a dream song and guitars in a theme song, you’re a promise of love“; l’improvviso lampeggiare di un flash al magnesio nello stesso momento della pugnalata e la traccia di quel delitto impressa su pellicola, distrutta poco dopo come l’ombra di un fantasma e vent’anni prima di Blow-Up.

Risucchiati dentro un mondo di apparenze ed ombre, materializzato dalla fotografia espressionista di un veterano come Franz Planer, i personaggi di “The Chase” vengono improvvisamente strappati dalla dimensione fantasmatica e inseriti in una realtà recursiva che già emergeva frammentariamente all’interno del sogno.

Quello spazio bianco da riempire è proprio lo scarto tra eventi e distorsione angosciosa, paura di affrontare un nuovo inizio e la vicinanza distruttiva con la morte.

All’interno di quella consuetudine del film noir anni quaranta, tesa a camuffare talvolta la provenienza e i confini della dimensione onirica, oppure a lasciare tracce visibili di una distorsione del reale in atto, il film di Ripley estende la cornice fino a spezzarla, sia per questioni di durata, come dicevamo, ma soprattutto per il modo in cui l’organizzazione degli eventi incorpora frammenti di realtà ricontestualizzati.

Quando torneremo una seconda volta a l’Havana con Scott e Lorna, la sequenza del bacio sulla carrozza replicherà un’occorrenza già esperita nel sogno, depotenziata dal grado minaccioso che l’attraversava.

Eppure la sensazione che il connubio tra immaginazione e fatti non sia affatto simmetrico è fortissimo, anche per la posizione del sognatore, quasi mai centrale in termini di marcatura, come al contrario accade in alcuni film dove l’entrata e l’uscita dal regno onirico assume contorni, confini e processi identitari precisi.

Dove sono allora i due giovani amanti, in quale falda temporale sopravvivono, forse nell’invito indirizzato da Lorna a Scotty poco prima del delitto nel club?
Dimentica il tempo” gli dice la donna ed è proprio quello che sembra uscire dai binari.

Tra le idee al limite di cui il film è disseminato, con straordinaria e consapevole collisione ulmeriana tra causalità e illogicità, occupa un ruolo interessante il sistema di accelerazione costruito sulla macchina di Eddie Roman. Il boss può prendere a piacimento il controllo della velocità dell’auto, schiacciando un pedale posto sul retro e lasciando all’autista solamente la gestione dello sterzo. Questa assunzione mascolina del potere viene visualizzata con il simulacro della velocità, elemento cinematico per eccellenza a metà strada tra effetto di realtà e massimo dell’artificio.

Con i toni e la scrittura di un racconto pulp, Eddie sembra la parodia estrema del desiderio distruttivo di un gangster, visualizzata nello spazio del sogno.
Ma è proprio quella dimensione irrealistica, che su un piano diverso corrisponde alle prospettive distorte fotografate da Planner all’interno del bazaar dove Peter Lorre fa fuori Robert Cummings, a ripetersi identica come il doppio sogno all’Havana. La corsa furibonda oltre la velocità del treno che costerà la vita ai due criminali è la più eccessiva ed estrema, anche se collocata al di fuori della cornice onirica.

Dove risiede il sogno allora? Nell’espansione della prima ora, come suggerirebbe la diagnosi del Dr. Davidson o nella contrazione furibonda della parte conclusiva? Lorna è la donna che morì due volte, in una relazione biunivoca tra predizione ed evento, oppure fantasie e nevrosi di Scotty sono destinate ad una ripetizione infinita?

Perchè in “The Chase” lo scambio combinatorio tra morte e desiderio, può cambiare improvvisamente il punto di vista e il ruolo non ancora scritto di vittime e carnefici.

The Chase di Arthur Ripley – USA 1946
Interpreti: Michèle Morgan, Steve Cochran, Lloyd Corrigan, Jack Holt, Don Wilson, Alex Minotis, Nina Koshetz, Yolanda Lacca, James Westerfield, Jimmy Ames, Shirley O’Hara, Peter Lorre, Bess Flowers
Sceneggiatura: Philip Yordan, tratto da un romanzo di Cornell Woolrich
Produzione: Seymour Nebenzal
Fotografia: Franz Planer
Montaggio: Edward Mann
Musiche: Michel Michelet


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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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