Lo sguardo di Andrea Segre, la fotografia di Luca Bigazzi e la voce di Vinicio Capossela, giacca sghemba sulle spalle e cappello sempre in testa. Come rabdomanti in cerca della vena buona hanno incontrato i rebetes, i cantanti del rebetiko, il blues ellenico.
“Piccola compagnia di ventura” in giro fra le taverne di Atene e Salonicco, portano fino a noi la musica dell’anima, qualcosa che gli argentini chiamerebbero tango, gli americani blues, i portoghesi fado.
Una musica “rivoltosa – dice Capossela – perché accende in noi la consapevolezza che ogni attimo è eterno perché è l’ultimo, ed è quello che ci invidiano gli Dei”.
E forse Erodoto vide giusto, allora, forse l’invidia degli Dei esiste davvero, se proprio Atene e Roma, che i poeti cantarono fari eterni di civiltà, oggi languono abbrutite sulle loro rovine. E’ la Grecia in-debito con il mondo intero quella che accoglie i nostri eroi nei vicoli sporchi dei quartieri lontani dai giri turistici. Di tanto in tanto uno scorcio dell’Acropoli, dietro l’angolo, o Piazza Syntagma, inutilmente solenne, distesa immobile davanti al Parlamento, poi di nuovo a perdersi nei vicoli bui dove un gatto nero si stira contro il muro, a bere ouzo nei piccoli bicchieri di vetro pesante dentro taverne fumose, ad ascoltare vecchie storie di povertà e amore, prigione e droga, vita, che è quello che è, e uno la canta perchè solo il canto a volte rimane.
Ancora un ritorno in Grecia, ma Lord Byron ed Henry Miller non abitano più qui, Agamennone è fuggito per sempre e la tradizione è un cumulo di detriti. Eppure Virginia Wolf scriverebbe ancora: “Assolutamente consapevoli di stare nell’ombra, e tuttavia vivi ad ogni tremore e baluginio dell’esistenza, essi durano ed è ai Greci che torniamo quando siamo stanchi della vaghezza, della confusione, del Cristianesimo… e della nostra epoca ”.
Ed ai Greci torna Andrea Segre con Vinicio Capossela, perchè di quella terra oggi rimane il canto, nato “dalla disperazione di un’antica crisi (la fuga da Smirne), una delle musiche che hanno costruito l’identità moderna della Grecia, trasportando con sé il dolore dell’esilio e la ribellione alle violenze della storia. È una musica contro il potere, non autorizzata, indebita.”
Due settimane tra le strade di Atene, di Salonicco, delle isole di Creta e di Ikaria, a registrare le voci aspre, dense, di cantanti di strada e di taverna, “anime con emozioni” dice un testo del ’52 , Gli stracci della povertà cantata da Vasilis Tsitsanis.
Dalla parola turca rebet, ribelle, il rebetiko ha attraversato il tempo, più di un secolo, ed è rimasta la voce della bile nera, quella degli ultimi che affidano alle sue melodie ricche, sempre mutevoli, nate nei bassifondi del Pireo, il loro carico di dolore, rabbia, rivolta e amore. C’è tutto in quella musica che aveva già conquistato Capossela, se nel 2012 le dedicò l’album Rebetiko Gymnastas in cui riproponeva alcuni suoi pezzi in chiave rebetika.
“Mi è venuto quindi il desiderio di informarmi un poco più da vicino – dice il cantante – ho fatto qualche viaggio con il registratore e il taccuino, il mio “tefteri“, il quadernetto sul quale il negoziante di alimentari si segna la spesa dei suoi clienti, i debiti che contano di saldare a fine mese. E su quello ho segnato diversi debiti e crediti che ho personalmente riguardo a questa musica e a questo paese. I debiti sono sempre gli insegnamenti umani, i crediti quello che si cerca di restituire.”
Suonando il baglamàs, piccolo strumento a corda che ogni rebetes porta con sè perchè lo nasconde facilmente quando la repressione si fa dura, con i cantautori greci di oggi Capossela cammina in cerca dello spirito rebetiko e lo trova, ai tavoli delle taverne, nelle scritte sui muri, in testi di nuda povertà, come i destini che cantano. “ Erano poveri e sono morti poveri ”, dicono i nuovi cantanti dei rebetes di un tempo, mentre l’occhio di Segre li tallona da vicino, li porta in primo piano fino a mostrarne l’identità profonda con quella disperazione di un tempo. Questi sono figli di un’Europa che ha un debito di riconoscenza con le sue radici culturali, ma è insolvente perchè ha tradito le sue origini, convinta che i mercati contino più delle persone. E’ questa la loro barricata, il canto povero e pieno di sentimento che tanti hanno già cantato prima di loro.
Ed è un canto “indebito”, com’era “indebito” quello degli schiavi d’America che nulla riuscì mai a far tacere: “When I get to Heaven I’m going to sing and shout / ‘Cause nobody there’s going to turn me out” “Quando andrò in cielo canterò e griderò / Perché nessuno mi zittirà“