La stampa internazionale sembra non aver fatto caso al nome completo del personaggio interpretato da Alba Gaïa Bellugi. In una sequenza centrale di Inexorable, Marcel Bellmer, lo scrittore a cui presta il volto un notevole Benoît Poelvoorde, apprende che il cognome di Gloria, la ragazza introdottasi in casa sua come assistente di famiglia e baby sitter per la figlia, è Bartel. Un dettaglio apparentemente privo di significato per lo sviluppo della narrazione, ma che in realtà crea una connessione diretta con uno dei tanti personaggi femminili che nella filmografia del regista belga si chiamano quasi sempre Gloria. La Bartel è la moglie scomparsa, il personaggio rimosso, la fantasia di un’intera comunità, la dolorosa trasformazione identitaria che viene applicata al corpo martoriato di Laurent Lucas in Calvaire, il lungometraggio d’esordio diretto da Fabrice Du Welz.
Nel film del 2004, Gloria prendeva forma in una dimensione mitica e ancestrale, lungo le stazioni della croce sopportata da Marcel, dove l’inafferrabilità del passato e il confine vago tra allucinazione e visione, trovavano espressione attraverso le manifestazioni metamorfiche della natura, anche quelle più bestiali.
In questo film, Gloria emerge da una rimozione analoga, ma che potrebbe assumere le caratteristiche di un inganno oppure la sostanza evanescente di un personaggio letterario, che improvvisamente affligge la psiche del suo autore.
In entrambi i casi è attraverso il corpo, il sangue e la relazione stretta con il mondo animale, che le due Glorie, a distanza di diciassette anni, assorbono e restituiscono le caratteristiche istintuali del mondo che le ha create e che vuole sopprimerle.
La forza ctonia che in Vinyan era esplicitata dalla presenza visiva della natura tailandese, nella relazione sempre più stretta con il personaggio interpretato da Emanuelle Beart, in Inexorable è confinata all’interno della cintura paesaggistica che circonda la villa di campagna di Marcel e Jeanne, la cui collocazione è in uno dei piccoli comuni situati al centro delle Ardenne, tra Libin, Libramont-Chevigny e Neufchâteau dove Du Welz e la sua troupe hanno girato.
Gli interni della villa assorbono quasi tutta la visione, mentre la foresta preme dai margini e Gloria, improvvisamente e fortuitamente comparsa ai confini della proprietà, si mostra già in confidenza con il grande e pacifico cane pastore della famiglia.
Ad accentuare questa relazione con le forze della natura, il lavoro di sound design, centrale in tutto il cinema di Du Welz, ma qui particolarmente presente come eco perturbante di una dimensione psichica e ferina che minaccia dall’interno l’assetto famigliare.
Proprio in questo senso, chi ha scritto che la sceneggiatura condivisa insieme a Joséphine Darcy Hopkins e Aurélien Molas, contribuisce a creare il film più tradizionale tra quelli diretti da Du Welz, sembra non abbia fatto i conti con il lavoro di decostruzione, anche poetica, che l’autore belga compie da sempre nei confronti dei meccanismi di genere.
Du Welz, nei titoli di coda, ringrazia John M. Stahl e Gene Tierney, per indicare probabilmente quanto le origini di Inexorable siano radicate in “Leave Her to Heaven” e in tutte quelle femmine folli che hanno attraversato il cinema americano, dal melodramma al thriller, fino alle codificazioni che tutti ricordano per convenzione e che includono, per esempio, alcuni titoli di Adrian Lyne e uno di Curtis Hanson.
Altrettanto ovvio come la natura ossessiva di quei personaggi, sia interessante per Du Welz, non tanto per costruire una dimensione metalinguistica che ne rovesci schematicamente la dimensione culturale, ma per accentuare la follia e l’istinto incorporati nella performance attoriale.
Gli occhi di Gene Tierney, così potenti da consentire l’elaborazione di un processo identitario oltre le stesse intenzioni di Stahl, diventano quello gonfio di Alba Gaïa Bellugi dopo essersi autoinflitta un colpo violentissimo. Il volto dolcissimo e quasi infantile di Gloria viene distorto in una posa grottesca che assomiglia a quella di un animale ferito.
Capace di mordere più forte di una bestia feroce, si introduce nel menage di Marcel e Jeanne, conquista la fiducia della piccola Lucie, addestra il cane Ulysse all’ubbienza.
Eppure l’introduzione della follia, nell’ossessione erotica per Marcel, passa sempre attraverso la citazione del suo ultimo romanzo, quell’Inexorable che conosce a memoria e che rappresenta la sua stessa capacità di parola. Tutto di quella passione è già stato immaginato ed elaborato da Marcel oppure tutto precede la stessa immaginazione, attraverso un personaggio che si fa carne, per eccedere la paternità stessa della creazione narrativa.
Gloria, improvvisamente, è fuori dalla narrazione stessa tracciata per le icone fatali, perché di quella fatalità interpreta la pura energia, legata alle istanze distruttive che sono già presenti nel nucleo famigliare di Marcel, come forze disgregatrici.
Figlia naturale o letteraria, amante incestuosa o dimensione incestuale della mente, non ha importanza, perché consente a Marcel e Jeanne di confrontarsi con la propria mostruosità, in un gioco al massacro che mette al centro il desiderio come potenza distruttiva.
Le lettere che Marcel nasconde non sono semplicemente la documentazione di una creatività falsificata, perché rappresentano il confine indicibile tra vita ed elaborazione finzionale, gesto creativo e creazione stessa.
Che il cinema di Du Welz abbia una componente mistica pagana è innegabile, per il modo in cui la ritualità della violenza, inclusa l’ipotesi del sacrificio, sia capace di scardinare i costrutti sociali delle società occidentali, mostrando la forma seducente e nefasta di una natura rimossa.
L’orrore e la violenza di cui è capace l’ecosistema famigliare, tra convenzioni e legittimazioni sociali, si riflette nella danza inquietante di Lucie durante la festa del suo compleanno. Di fronte a parenti e amici, dal palco di un piccolo teatrino che rappresenta il limite tra sguardo e mondo, la bambina interpreta con il corpo il growling rantolante di un brano Death Metal composto appositamente dagli H.o.o.G. per il film, e restituisce agli astanti tutta la sostanza indicibile dell’essere figlia “generata”, prendendo per la prima volta contatto con l’espressione diretta del corpo.
In questo involucro, Du Welz non rinuncia affatto al suo cinema fisico, organico ed estremo, filmato ancora una volta in pellicola, con la fotografia super 16mm affidata a Manuel Dacosse, straordinario occhio visuale insieme al regista belga sin da Alleluia e sodale della coppia Cattet-Forzani.
La violentissima escalation conclusiva, ancora una volta dimostra quanto Du Welz da film a film, assegni al maschile e al femminile ruoli intercambiabili che disinnescano le dinamiche di genere, per negazione o per eccesso.
L’unico elemento che accumuna ogni descrizione del desiderio è quello primigenio, in una declinazione bestiale del cinema di Catherine Breillat dove nessuno si salva, tranne un’idea di femminile che riscrive le proprie qualità generative a partire da una dimensione pre-culturale.
Se il menage tra Marcel e Jeanne, sembra possa proseguire solo attraverso la violenza e la propensione all’abuso, dove niente può essere creato all’interno degli sterili meccanismi di potere che regolano la vita quotidiana, al contrario, l’unico rilevatore di vita è il corpo.
Il cazzo di Marcel che non si rizza più, gli scontri fisici con Gloria, i morsi di lei sul corpo di Marcel e quelli autoinflitti, la già citata danza ferale di Lucie ed infine il massacro finale, dove Du Welz usa davvero tutti i codici del thriller americano anni novanta, ma li decostruisce in termini anche visuali, con quelle punte di trapano disseminate sul pavimento di una casa senza una vera e propria forma e ancora da ricostruire.
Nel bagno di sangue tra Marcel e Gloria assistiamo allora ad una commovente creazione, mentre sullo sfondo la famiglia nucleare si dissolve nel niente. È una strana e reciproca partenogenesi, figli e madri allo stesso tempo, condividono la genesi di un mondo che tramuta la psiche in carne e sangue.
Inexorable di Fabrice Du Welz (Belgio, 2021 – 98 min)
Interpreti: Alba Gaïa Bellugi, Jackie Berroyer, Mélanie Doutey, Benoît Poelvoorde, Catherine Salée, Anaël Snoek
Sceneggiatura: Joséphine Darcy Hopkins, Aurélien Molas, Fabrice du Welz
Fotografia: Manuel Dacosse
Musica: Vincent Cahay