Infinity Pool sollecita numerose riflessioni antropologiche, politiche, percettive, ma elabora soprattutto una grottesca ed estrema parodia delle cornici rappresentative entro cui siamo immersi tutti quanti, anche di fronte alla morte.
Infinity Pool: la recensione del film
Il resort esclusivo che confina e separa i facoltosi turisti dalla vita indigena di La Tolqa, è separato da un muro di filo spinato identico a quelli utilizzati per i presidi militari. L’esterno è un orizzonte impossibile, descritto entro il recinto del benessere con pericoli simili a quelli del Messico più selvaggio.
Il perimetro immaginato da Brandon Cronenenberg, contrappone la filosofia degli standard all inclusive allo sfondo della povertà che caratterizza numerosi scenari sociali nel sud del mondo.
Per ricostruire l’involucro di un’esperienza personale vissuta nella repubblica Dominicana, il regista canadese ha filmato Infinity Pool all’Amadria Park di Šibenik, in Croazia e successivamente a Budapest, città perfetta per ricombinare l’architettura del regime sovietico come contesto dove si articola il capillare sistema di polizia che regola tutta la vita del luogo.
In un paese dove le radici cultuali determinano un basso livello di tolleranza per ogni infrazione al codice morale, il denaro del capitalismo occidentale può piegare questo rigore apparente, pagando la produzione di un clone, vittima sacrificale per espiare i crimini più efferati.
La pantomima del potere, rimette in scena pene capitali basate sulla legge del taglione, grazie ad un replicante che duplica anche i ricordi del condannato.
L’esplicito riferimento a Super-Cannes, il romanzo di J.G. Ballard opzionato da Cronenberg per un prossimo adattamento, è evidente sin dalle prime immagini, per il modo in cui descrivono comunità autoctone, libere di generare la propria moralità, sullo sfondo di un paesaggio costruito su quei modelli di benessere e tecnologia, consapevolmente regolati per progettare la salute di una collettività che consuma.
Se Eden-Olympia è un blocco architettonico che permette allo scrittore inglese di veicolare, secondo direttive opposte, un’impietosa analisi politica sui guasti dello scientismo turbo-tecnocratico e allo stesso tempo un vitale ricorso alla follia pulsionale, come unico sabotaggio possibile di qualsiasi utopia al potere, il dispositivo di Cronenberg assolve queste e altre funzioni, aprendosi a molteplici interpretazioni che includono la fisiologia della realpolitik corrente, la connivenza dei sistemi “democratici” nelle morfologie di regime, la sopravvivenza di uno sguardo coloniale come codice interpretativo della realtà, l’esplosione dell’energia istintuale come forza distruttiva che può svelare la relazione non riconciliata tra corpo e regole sociali.
Ma come tutti i dispositivi che sollecitano riflessioni antropologiche, politiche e cognitive, Infinity Pool, a dispetto della cornice letteraria riconoscibile in cui è inserito rispetto al più sfuggente Possessor, si distingue per modi e prassi della visione che eccedono ogni considerazione morale, grazie ad un cinema psichico, la cui forma sottende scelte di natura empirica.
Cronenberg ci tiene a sbarazzarsi il più possibile delle marcature legate alla cultura digitale, esattamente come per la bella colonna sonora “organica” di Tim Hecker, inventandosi un artigianato prostetico, ma soprattutto ottico, utile per elaborare la sua personale idea di cinema espanso, come ponte tra le arti visuali. Effetti in camera, progettazione di supporti lenticolari e di specifici box riflettenti, utilizzo di gel e altri sistemi per attivare metamorfosi al volo, puntano a creare un’esperienza fatta di luce, che forza i confini del Cinema e stabilisce nuove relazioni tra schermo e visione.
Le sequenze che immergono i turisti del resort in un incubo psicotropo, sono certamente episodi isolati, ma determinano l’incorporamento di tutto il film entro un regno psichico che sovverte l’ordine degli eventi, insinuando connessioni permeabili tra piani di realtà.
Per quanto lo sport preferito da una rete non più e forse mai più critica, sia quello del disinnesco dei segni a favore di una spiegazione univoca e chiarificatrice, Infinity Pool disattende tutte queste dinamiche tribali, elaborando una grottesca ed estrema parodia delle cornici rappresentative, proprio nel rilancio di quella macchina celibe che è il rivedersi visti attraverso la riproduzione seriale di engrammi digitali.
L’hacking identitario che mettiamo in scena nella stand-up-comedy quotidiana della narrazione social, viene riproposto da Cronenberg con un’inquietante commedia degli equivoci che scambia corpi, interpola coscienze, sovrappone azioni creative con pulsioni distruttive, rilascia freni inibitori.
Che la risata sia una reazione ricercata dall’artista canadese, lo ha confermato in quasi tutte le interviste concesse alla stampa statunitense dopo la presentazione del film al Sundance. Questa, ingoiata o meno, consente di sostituire l’indignazione morale con un’assunzione del punto di vista criminale e di quello della vittima, in una continua messa in scena della propria immagine riflessa, che corrisponda alla sua stessa condanna a morte.
Il progressivo distacco emotivo di Alexander Skarsgård durante il procedere seriale dei cloni a sua immagine, non si applica in modo simmetrico all’esca narrativa che Cronenberg dichiara esplicitamente, insinuando il dubbio che nella prima esecuzione sia stato soppresso l’originale e sopravvissuta la copia.
Viene invece spostato l’asse percettivo sulla tolleranza che siamo disposti a incorporare, barattando l’irriducibilità degli eventi, con la replica pervasiva della nostra iper-presenza.
James Foster, scrittore in crisi, si fonde alla fine con il paesaggio del resort e con l’idea di piscina a sfioro: un’illusione ottica che apre lo sguardo verso l’orizzonte, ma rimane chiusa nella sua cornice di riferimento. La crisi creativa che lo blocca, può essere l’oggetto o il soggetto stesso di un isolamento assoluto dalla realtà collettiva, mentre lo sconfinamento estremo delle proprie pulsioni, come gli suggerisce Gabi, può riattivare creatività sopite.
Le maschere Eki indossate da Mia Goth e dal gruppo di turisti, sottolineano ad una prima lettura l’eccedenza tra i segni di una cultura rituale e l’appropriazione coloniale di un rimosso, ma sono costituite da lacerti del consumo di massa, in un patchwork tra chirurgia estetica corrotta, metamorfosi industriali, relitti totemici connessi al mondo animale.
Ancora una volta, autenticità e inautenticità convivono, assegnando alla falsificazione un grado amplissimo di possibilità dalle quali non è più possibile disancorarsi, anche di fronte alla morte.
Infinity Pool: il mediabook di Turbine Media – video unboxing
L’edizione Turbine Media di “Infinity Pool” è costituita da due dischi 4k UHD + Blu Ray. Il packaging è quello del Media book di alta qualità, disponibile in quattro set differenti per copertina e artwork. Ciascun set è limitato a 666 copie e quella in nostro possesso è la “Mediabook C”. Vediamola insieme in dettaglio.
Il Media Book di Infinity Pool
Infinity Pool: la recensione dei contenuti speciali del Mediabook
Oltre ai sottotitoli in inglese e tedesco e alla doppia lingua DTS-HD MA 5.1, anche i numerosi contenuti speciali di Infinity Pool sono sottotitolati in lingua inglese e tedesca opzionabile, un dettaglio non da poco se si considera che le edizioni internazionali con contenuti anglofoni, raramente comprendono i sottotitoli anche per il comparto extra.
La dotazione dei contenuti speciali è molto interessante.
Presente un Making of di 10 minuti costituito da interviste a Brandon Cronenberg, Alexander Skarsgård, Mia Goth e lo staff tecnico.
Da non perdere i 23 minuti di Making of dedicati interamente agli effetti prostetici e al makeup utilizzati nel film. L’approccio tattile del regista canadese trova una conferma evidente nei numerosi apparati genitali utilizzati per il film. Uno che sostituisce il pene di Skarsgård per la scena molto grafica della masturbazione praticata da Mia Goth, altri che sono stati utilizzati per la sequenza dell’orgia, e che caratterizzano la qualità performativa della stessa, con l’impiego di organi che fioriscono dentro altri, ideati con una prospettiva pansessuale e intersessuale. Tutto il contenuto ha una preponderante qualità “porno” che in qualche modo ricorda gli esordi di Cronenberg padre, ma con un’attenzione diversa e più marcata nella relazione tra sguardo ed elemento prostetico.
Gli aspetti più tangibili di quella sequenza sono infatti ricombinati nel contenuto successivo, dedicato agli effetti ottici, in modo da comprendere approfonditamente la genesi e la morfologia di quel segmento, filmato inizialmente con l’uso massivo di peni, vagine, capezzoli incistati da organi alieni e altre incorporazioni e successivamente rielaborato in forma ottica. Sei minuti dove vengono mostrati tutti gli apparati illuminotecnici costruiti per l’occasione, tra cui un box rotante infestato di led, che funge da vera e propria lanterna magica dove le immagini già filmate dell’orgia, vengono letteralmente ri-mediate “in camera”. La dimensione ottica del cinema di Brandon Cronenberg, già chiara a partire da Possessor, privilegia la distorsione lenticolare, il difetto percettivo, lo scarto tra immagine e riflesso, con un’estetica unica che riduce al minimo gli interventi in post produzione e si inventa un cinema del futuro, attraverso intuizioni “optical” che appartengono all’immaginario delle origini e a quello underground degli anni sessanta.
Non è un caso che venga inserito anche il cortometraggio di dieci minuti, diretto da Cronenberg nel 2019, poco prima di lavorare a Possessor. “Please Speak Continuously and Describe Your Experiences as They Come to You”, presentato originariamente alla Semaine De La Critique cannense, procede da quell’immaginazione medicale che il regista canadese aveva allestito per “Antiviral”, il suo primo lungometraggio, per approdare ad un’estetica retrofuturista che indaga la relazione tra psiche, immagine e dimensione onirica. Gli effetti sono quelli delle aberrazioni cromatiche RGB, tipiche dei vecchi monitor CRT o dei nastri analogici VHS e Video8. I tre colori del modello additivo raccontano la moltiplicazione e i successivi sdoppiamenti mnestici di una paziente psichiatrica con un chip chirurgicamente implementato nel suo cervello.
L’immagine pulsionale prende il sopravvento e rende permeabile la sovrapposizione tra interfaccia analogica e riflessione sulle nostre molteplici identità, rappresentate in abisso nello spazio virtuale.
Un esperimento visual che in qualche modo ricorda quello di Denis Villeneuve tra il suono e il colore, intitolato “Étude empirique sur l’influence du son sur la persistance rétinienne”. Rispetto alla scelta totalmente ottica del regista québécois, Cronenberg è maggiormente interessato al racconto e alle modalità con cui questo può mutare e fiorire in mille direzioni.
La doppia intervista a Alexander Skarsgård e Mia Goth è un contenuto di 10 minuti, dove i due attori raccontano la loro diversa attitudine rispetto al copione e al lavoro sul set. Emerge Mia Goth e il suo rigore specifico nel modellare il suo personaggio. L’approccio seduttivo e manipolatorio di Gabi Bauer è una creazione impostata a partire dalla distanza che l’attrice ha voluto stabilire sul set con Alexander Skarsgård, cercando di non farsi coinvolgere da situazioni conviviali e amichevoli fuori dal contesto lavorativo stretto. Una freddezza ricercata che le ha consentito di limitare la confidenza con l’attore ed esercitare quindi su di lui un’influenza seduttiva maggiore.
Oltre ai trailer, gli spot televisivi e una galleria con tutti gli oggetti di design che caratterizzano l’ampio universo visuale del film, sia il Blu Ray che il disco UHD contengono un audio commento con sottotitoli in inglese e in tedesco, tra Cronenberg, il talentuoso direttore della fotografia Karim Hussain e il produttore Rob Cotterill.