Se David Lean, per girare Lawrence D’arabia, ha trascinato nel deserto cineprese a 65 mm, perchè non dovremmo avere le stesse aspirazioni?
La pensa così Christopher Nolan, e il suo Interstellar sfrutta ancora una volta le potenzialità IMAX combinando desiderio innovativo con il 70mm, segno di una resistenza ideologica così forte al DCP da obbligare alcune sale statunitensi alla proiezione su pellicola, mentre sul set, come è possibile vedere nella featurette diffusa da Techradar, il regista britannico ha cercato di avvicinare la magniloquenza del formato ad una portabilità fisica, con una serie di trovate tanto ingegnose quanto inutili, muovendo le macchine come “fossero Go-pro”; è il sogno Nolaniano di spingersi “realisticamente” verso la geometria Escheriana, operando un rovesciamento percettivo tra l’interno e l’esterno dell’immagine, una sorta di espansione della magniloquenza archeologica del Super Panavision (Lawrence D’arabia, 2001: a space odissey) forzata verso la vertigine di uno spazio “innaturale” che avvicinandosi all’iperbole del cyberspace lo nega con un piede dentro le nuove tecnologie e l’altro ben piantato in un sogno del passato.
Si obietterà che il Malick di Tree of life viveva la stessa contraddizione, tra elegia diaristica e le visioni colossali di Trumbull, ma non è esattamente la stessa cosa, se si riflette all’approdo attuale dell’immagine Malickiana e al tentativo terribilmente pachidermico di Interstellar nell’aderire ai corpi.
Il cinema di Nolan si è avvicinato sempre di più a questa logica dello spazio convesso, limitandosi inizialmente agli aspetti ricorsivi dei processi cognitivi, fino ad applicare gli stessi principi non-lineari ad un’architettura che non fosse semplicemente sequenziale (Memento) ma legata alla formazione stessa di quei concetti in immagini (Inception).
Un tentativo che non è semplicemente una mutazione di interessi, dalle scienze cognitive alla fisica, ma l’ossessione di affinare una personale epistemologia della visione considerando il dispositivo cinematografico esattamente come un sistema complesso, una macchina da smontare e rimontare, convenzioni incluse, che ha alimentato un dibattito critico transmediale, tra appassionati e critica di settore, tutti concordi nell’identificare uno storytelling in continua espansione capace di rigenerarsi attraverso lo smontaggio e la riconfigurazione di quei codici mitopoietici utilizzati dallo stesso Nolan.
C’è tutta una critica che proprio per questi motivi ritiene che le caratteristiche intertestuali del corpus filmografico di Nolan abbiano creato un universo filosofico autosufficiente più o meno legato ad alcuni aspetti teorici molto precisi: il cinema che guarda se stesso; i processi costitutivi della nuova Hollywood messi in abisso; gli stereotipi del genere utilizzati per esser messi a nudo in tutta la loro fragilità; una riflessione sull’immagine tempo; e ancora il Noir post-moderno, Jacques Lacan, la filosofia della scienza e via dicendo.
Noi ci siamo limitati a parlare di Maurits Cornelis Escher e della sua idea di spazio proprio perchè la prassi produttiva Nolaniana, sembra tendere sempre di più alla costruzione di una scatola-cinema che funzioni secondo specifici parametri epistemologici, non importa cosa contiene, perchè è la dinamica costitutiva che conta.
In questo senso, su Interstellar potremmo dire le stesse cose che avevamo scritto su Inception, ma con due varianti.
Se come dicevamo, l’artigianato Escheriano è del tutto assente nelle strategie Nolaniane, quasi sempre legate ad un concetto che precede l’immagine e la costruisce sulla traccia di coordinate verbali pre-esistenti, in questo senso, Interstellar ha gli stessi punti deboli di Inception nella forte supremazia della parola, qui allineata ad un progetto specifico che applica alcune figurazioni di quel film al pensiero di Stephen Hawking, Thomas Hertog e Kip Thorne, quest’ultimo coinvolto a pieno titolo nella produzione.
Sono quindi chiarissimi i riferimenti alla “teoria del tutto”, quella che secondo Hawking e Hertog dovrebbe spiegare l’origine dell’universo a partire dalla lettura del “Limite circolare IV “, una nota immagine di Escher, così come è chiara la scelta di spingere Hans Zimmer a comporre una colonna sonora che è uno strano mostro Bachiano (la cosa più bella del film) come a riferirsi alla “fuga metaforica su menti e macchine nello spirito di Lewis Carroll” scritta da Douglas Hofstadter nel suo libro “Gödel, Escher, Bach“; e del resto Lewis Carroll è un riferimento suggestivo, se si pensa alle numerose cadute nei Warmhole, buchi neri, curve dimensionali, inclusa l’ultima di Cooper.
Eppure ci viene in mente il pensiero della fenomenologa che più di tutti, negli ultimi anni, ha cercato di raccontare l’esperienza cinematografica come un superamento della dimensione scopica, quella a cui Nolan, come un vecchio cineasta del controllo fuori tempo massimo, ancora si riferisce. Pensiamo al “pensiero carnale” di Vivian Sobchack, che si è cimentata in più di uno scritto con la definizione dello spazio non euclideo come superamento dei limiti percettivi imposti dal linguaggio descrittivo tradizionale; perdersi nello spazio diventa necessario in un’esperienza che dall’occhio coinvolge anche gli altri sensi; in questo senso, un cineasta come Michael Bay l’ha capito benissimo, basta pensare a come utilizza il formato IMAX in Transformer 4, perdendo e facendoci perdere completamente le coordinate, facendo collassare lo spazio su se stesso, oppure il Cuaron di Gravity che cancella continuamente l’orizzonte visivo applicando all’esperienza cinematografica il viaggio dell’occhio megaloscopico, tra sguardo e interfaccia fisica, di cui facciamo esperienza attraverso percorsi geolocalizzati.
Se intertellar si salva, è proprio quando guarda al passato, a John Ford, a David Lean, nel tentativo di recuperare un’antica esperienza emozionale o di dare corpo alla lotta contro la morte suggerita dai versi di Dylan Thomas (Rage, rage against the dying of the light), frammenti, prima di chiudersi nuovamente nell’illusione ottica del proprio cubo di Necker.