Uno stadio invaso da fumogeni e luci colorate. Completamente vuoto, ma abitato solamente da due squadre e da alcuni esponenti delle autorità locali. Potrebbe essere lo spazio di un dopo partita oppure una dimensione sospesa dove non è possibile comprendere fino in fondo lo sport praticato, il tempo agito e il modello societario a cui ci si riferisce. L’unico elemento certo è il ritrovamento del corpo di una vittima. La ricostruzione dettagliata degli eventi viene caldeggiata per motivazioni e scopi diversi, non ultima la possibilità che si compia un nuovo crimine. La vittima ha un “doppio”, una sorella gemella che si nutre di sangue e che in qualche modo deve essere uccisa nella ripetizione di un rituale circolare, come quello innescato dal cinema “escheriano” di Shahram Mokri, con Hojoom al suo terzo lungometraggio.
Sono passati quattro anni dall’unico take di Fish and Cat e il cineasta iraniano mantiene lo stesso rigore, sperimentando ancora una volta con un “cinema della durata” legato all’applicazione estrema e innovativa del piano sequenza.
Anche per “Invasion” sceglie una planimetria circoscritta, ma sostituisce la dimensione del viaggio con una lenta discesa agli inferi. Il movimento è simile, incessante e spiraliforme, ma rispetto al film precedente gioca meno esplicitamente con la qualità caotica del tempo, lavorando sui recessi dello spazio, le improvvise aperture e le deviazioni di un percorso che tutte le volte aggiunge qualcosa rispetto ai ruoli stabiliti dalle intenzioni ricostruttive.
La sovrapposizione tra passato e futuro viene spostata su un piano maggiormente visivo, con l’invenzione di dispositivi che alludono ad una tecnologia retro-futurista; oggetti, prassi e gesti arcaici assimilati da una science-fiction ancora organica.
Un crepuscolo senza fine né inizio si estende nei limitati esterni che intravediamo, mentre l’interno dello stadio viene scandagliato attraverso i lunghi corridoi, gli spogliatoi, i cessi, gli armadietti, i cubicoli nascosti, quasi si trattasse di un rifugio militare in tempo di guerra.
Le musiche del compositore Milad Movahedi seguono i movimenti principali di Ali (Abed Abest), l’assassino supposto, individuato, sconfessato e di nuovo al centro di un crimine durante questo lungo percorso di espiazione, ma allo stesso tempo sottolineano l’andamento sinfonico dello stesso film, elaborato a partire da un movimento centrale, continuamente sabotato da variazioni successive.
Come in Fish and cat, il lavoro di decostruzione sui generi è radicale e tende a creare una relazione complessa tra sguardo e rappresentazione. Se l’impianto generico è quello metadiscorsivo, Invasion tende a distanziarsi dai meccanismi del dispositivo “en abyme”, complicando la narrazione, inserendo nuovi elementi, scambiando continuamente ruoli e posizione ai suoi personaggi.
La separazione tra una squadra e l’altra allude a numerose dicotomie, non solo in termini spaziali, perché alle continue divisioni prospettiche evidenziate dalla relazione tra corpi e ostacoli visivi, si aggiunge la fisiologia di un mondo descritto, un altro lato invisibile e ricostruibile solamente attraverso la frammentazione discorsiva di questo che vediamo declinato al presente, uno stadio che potrebbe rappresentare il confine oppure l’arena adibita al confronto tra i due mondi di una società attraversata da insanabili divisioni.
Eppure che differenza sarebbe quella tra i due mondi? Uno dei ribelli, una sorta di hacker nel sistema, non scorge più differenze: “copia e incolla”.
Enigmatico e completamente immerso nel nostro modo “mediato” di spiare la realtà, “Invasion” sembra avvicinare sempre di più il cinema di Shahram Mokri ad una brillante e inquietante parodia dello sguardo videoludico, quello esplorativo che ha influenzato tutti i dispositivi di lettura della realtà, dalle mappe geolocalizzate, passando per le applicazioni “aumentate”, fino all’esperienza VR. Di queste evoluzioni dello sguardo, il regista iraniano sembra interessato all’essenza e non alle modalità estetiche, intelligentemente ignorate a favore di una visione eminentemente cinematografica, intesa come esperienza percettiva nel suo farsi.
Come nel precedente film, i segni di un Iran tradizionale, qui rappresentato da oggetti, segni, tatuaggi e una tendenza a trasformare il monologo interiore in un incedere poetico della stessa narrazione, si sovrappongono ad una visione politica lucidissima e allo stesso tempo sfuggente, difficile da decodificare in pieno.
Un paese spaccato in due dalle direzioni opposte e contrastanti della rivolta, la necessità di mentire come atto estremo di sopravvivenza rispetto ad una realtà chiusa e impenetrabile, che ha impostato tutto sulla sorveglianza e sul controllo, sono solo alcuni degli aspetti dischiusi dal film. Chiarissima e allo stesso tempo enigmatica la sequenza in cui un minaccioso Babak Karimi sembra introdurre un ultracorpo alieno nel letto dove giace un’anziana signora; quasi un’immagine allo specchio di un non precisato cannibalismo statale, un nemico interno che ammala il paese.
Del resto, la continua ri-messa in scena del delitto, che sostituisce continuamente alcuni corpi con altri, cambiando prospettiva e posizione dei personaggi fa i conti con la persuasione subita dal teatrino mediatico, contro il quale Mokri imbastisce un’acuminata disamina dei meccanismi simulativi.
Strano film di “non morti” Hojoom, dove la libertà sembra un miraggio o una malattia della mente. Eppure quello di Shahram Mokri è un cinema allusivo, nella sua accezione migliore, perché assolutamente aperto, lontano anni luce da quei film “della crisi” che utilizzano il gioco come metafora esplicita della società, confinando di fatto la narrazione in una dimensione statica e meccanica. “Invasion” è al contrario un film potentemente sonnambòlico, spinto da una forza invisibile e arcana ci invita a rimanere vigili, mentre l’immagine tende e ci tenta verso la deriva di un sogno eterno.