domenica, Dicembre 22, 2024

Jukka Pekka Valkeapää – Dogs Don’t Wear Pants: l’intervista con il regista finlandese

Juha, un rispettabilissimo chirurgo interpretato da Pekka Strang, perde la moglie durante una vacanza in riva al lago. Impigliata in una rete da pesca, la donna non riesce a risalire ed affoga. La nascita di un'ossessione viene seguita attraverso pochi elementi: la sospensione "amniotica" in acqua, paura e desiderio per il soffocamento, una lenta dissoluzione verso la "piccola morte", che condurrà Juha alla ricerca di se attraverso la pratica dello strangolamento, nel dungeon di una mistress interpretata dalla sorprendente Krista Kosonen.. L'intervista al regista finlandese Jukka Pekka Valkeapää

Reduce dall’ultima Quinzaine des réalisateurs nell’ambito di Cannes 2019, “Dogs Don’t Wear Pants“,  il terzo film del regista finlandese Jukka Pekka Valkeapää, arriva a Toronto, nella sezione Contemporary World Cinema. Conosciuto in Europa attraverso il circuito festivaliero, dal 2008 fino ad ora Jukka Pekka ha realizzato tre lungometraggi, tutti accomunati da una notevole forza visiva e da un utilizzo essenziale della parola.

The Visitor“, presentato nel contesto veneziano della Settimana della Critica nel lontano 2008, era un film di grande rigore formale, ma anche di estrema libertà compositiva. Più vicino al cinema delle origini rispetto ai film successivi, seguiva le tracce di un’anti-elegia sull’infanzia perduta, sviluppata con il ritmo dilatatissimo di un western crepuscolare e la presenza concreta di oggetti e gesti, ad occupare uno spazio intermedio tra realismo astratto e fiaba.  Nella riduzione estrema dei dialoghi, il senso viene affidato allo spazio visivo e a questi corpi che si oppongono strenuamente agli elementi della natura, senza cedere alle tentazioni di un cinema simbolico.

A polarità invertite, gli elementi strutturali della fiaba tornano anche nel successivo “They have escaped“, passato in Italia nel 2014 grazie alle Giornate degli Autori. Storia di una fuga dall’autorità, il film dischiude in superficie uno sfondo sociale di cui lo stesso J-P parla durante le conferenze stampa, ma lo re-interpreta uscendo dal solco dei tradizionali racconti di formazione, privilegiando quel contatto con i segni della natura che animavano il film precedente.

Il secondo del regista finlandese mette al centro due adolescenti, di cui indaga empiricamente i movimenti, le repentine mutazioni umorali e la ricerca della meraviglia fuori dalla cattività.  Film onirico e allo stesso tempo crudissimo , a conferma del suo interesse per gli spazi di transito, quelli che connettono l’esperienza umana con altri mondi, “They Have escaped” si affidava ad una narrazione apparentemente più lineare, per esplodere tra i colori saturatissimi di un horror dell’anima attraverso il montaggio decostruito del sodale Mervi Junkkonen. Senza dominare il mondo del sogno con quello della realtà e viceversa, “They have escaped” era una visione con più ingressi che improvvisamente diventava tutt’una con l’immagine della cattività e della liberazione. 

Dogs Don’t Wear pants” arriva cinque anni dopo e riconfigura ancora una volta il cinema del regista finlandese, mantenendo una coerenza estetica molto precisa e bilanciando diversamente tutti gli elementi presenti nei film precedenti. 

Dogs Don’t Wear Pants di Jukka Pekka Valkeapää – Il trailer ufficiale

Diretto e apparentemente tradizionale è in realtà il più stratificato e libero, nonostante la confezione possa far sembrare il contrario. In particolare, l’attenzione ai personaggi di contorno, alimentao una visione periferica che offre ogni volta prospettive diverse, senza il rischio di scivolare nelle sabbie mobili del film corale.

Juha, un rispettabilissimo chirurgo interpretato da Pekka Strang, perde la moglie durante una vacanza in riva al lago. Impigliata in una rete da pesca, la donna non riesce a risalire ed affoga. Jukka Pekka spezza la rivelazione e la contrae in una serie di frammenti visivi ridotti alla loro essenza iconologica. La donna di spalle prima dell’immersione, le lacrime disperate della figlia, la corsa di Juha verso il pontile. Una tensione drammatica fortissima, scandita dalla musica cronometrica e “organica” del compositore ceco Michal Nejtek e dalla cupa fotografia di Pietari Peltola, allinea le scelte di Jukka Pekka a quel cinema libero degli anni settanta, che s-montava lo sguardo in una visione situata prima e dopo la conoscenza. 

La nascita di un’ossessione viene seguita attraverso pochi elementi: la sospensione “amniotica” in acqua, paura e desiderio per il soffocamento, una lenta dissoluzione verso la “piccola morte”, che condurrà Juha alla ricerca di se attraverso la pratica dello strangolamento, nel dungeon di una mistress interpretata dalla sorprendente Krista Kosonen.

Non è privato della parola come “The visitor”, ma “Dogs Don’t Wear Pants” conserva una dimensione aurale fortissima, che anticipa e suggerisce quella visiva.
Il mondo “aumentato” del BDSM diventa il centro di una relazione che dalla soggettiva di Juha occupa lo spazio di un’elaborazione del lutto, ma è una linea narrativa che si infrange presto attraverso tutte le percezioni esterne a quello spazio, a partire da quella di Mona, la dominatrice che ne controlla tutta la prossemica e gli oggetti di scena.

Totalmente assimilata con il ruolo,  Mona rappresenta il rovescio di una psicologia tormentata, proprio perché fuori dalla giustificazione sociale e morale che potrebbe rivelare il senso delle sue scelte. Coraggiosa quella di Jukka Pekka, che oltrepassa la commistione di registri intesa come abile tour de force di derivazione pulp. Melodramma, horror, Commedia e tragedia confondono spesso l’origine della visione e l’indirizzo stesso dello sguardo, rivelando il tragico tra le pieghe dell’umorismo più torvo e l’espressione più pura del desiderio nell’esercizio del potere. 

Assolutamente ficcante nel rivelare le dinamiche che emergono da qualsiasi rapporto convenzionale, Jukka Pekka dissemina il film di improvvisi deturnamenti, sconfina con l’osservazione iperrealista del cinema della crudeltà, per poi sbarazzarsene con uno sguardo preciso che osserva ancora una volta, il mondo degli adulti e quello dell’adolescenza, dibattersi in uno spazio dove la “natura” è assente oppure dissemina segnali indecifrabili. 

Ospite del Toronto International Film Festival, abbiamo raggiunto Jukka Pekka Valkeapää via Skype per una lunga conversazione intorno al suo cinema e per scoprire da vicino l’affascinante dungeon di “Dogs Don’t Wear Pants

Buongiorno Jukka Pekka, ti ringrazio per la tua disponibilità. Sei a Toronto in questo momento per la presentazione di “Dogs Don’t Wear Pants”, spero che la proiezione abbia il successo che si merita, il film è davvero potente…

Ti ringrazio, si sono a Toronto, la proiezione è prevista per domani…

Guardando nuovamente “The Visitor”, il tuo primo lungometraggio, ho trovato alcuni elementi che attraversano tutto il tuo cinema e che in quel film erano presenti in forma più evidente. Mi riferisco all’importanza rituale e quotidiana dei gesti che sostituiscono la comunicazione verbale e la parola. Nonostante sia un film molto diverso, sono aspetti che tornano con grande forza in “Dogs Don’t Wear Pants”. Cosa ti interessa del gesto e del rito, rispetto alla parola?

Credo che abbia molto a che fare con il mio background come illustratore. Disegnare fumetti è connesso con il modo in cui si pensa attraverso le immagini, in questo senso la mancanza di dialoghi per me è semplicemente la forma più naturale di elaborare un racconto, non è qualcosa a cui ambisco programmaticamente, ma è semplicemente la dimensione più naturale per raccontare le mie storie.

Oltre alle immagini però anche il rapporto tra suono e silenzio è rilevante nei tuoi film. C’è qualcosa che ti lega in modo particolare al cinema delle origini?

Ho cominciato a guardare film quando ero un adolescente, partendo dal cinema horror, ma all’età di quindici anni ho avvicinato un altro tipo di cinema e ho visto per la prima volta “Un chien andalou” di Luis Buñuel così come alcuni film di Godard. Riguardo al cinema delle origini, credo di aver subito un forte impatto dalle opere di Murnau, “Sunrise“, per esempio, è stata una vera e propria rivelazione. Da un punto di vista visivo, ma vorrei dire soprattutto audio-visivo, “M” di Fritz Lang mi ha influenzato molto. Guardandolo, insieme a “Der letzte Mann” di Murnau, ho pensato che in quei film ci fosse già tutto. Tutto il linguaggio visuale del cinema. Mi riferisco al punto di vista soggettivo e distorto, ma anche alla grande efficacia sonora di “M“, assolutamente meticolosa, dove ogni suono ha un significato. In generale guardo ogni tipo di film, ma se penso ad un “sentimento” al quale potrei appartenere, aspetto che non so quanto sia percepibile o meno nei miei film, penso al cinema degli anni settanta, sia americano che europeo, ma soprattutto statunitense, laddove si verifica quella fusione tra lo storytelling lineare di matrice classica e le influenze del cinema europeo. Amo molto quel periodo nel cinema americano, ci torno sopra continuamente, riguardandolo e ripercorrendo le opere di autori come Hal Ashby, Coppola, Spielberg, Malick.

Sempre a proposito di immagini e gesti. Quali connessioni e differenze ci sono secondo te tra la ritualità arcaica di “The Visitor” e quella più contemporanea di “Dogs don’t wear pants”; c’è spazio per il mistero nella prassi BDSM?

Si c’è spazio. A partire dal rituale casalingo di Juha quando si masturba, coprendosi con il profumo e gli indumenti della moglie defunta. Una dimensione che è insita nel personaggio e che trova in un certo senso prosecuzione. Un rituale certamente molto umano e personale, che viene enfatizzato solo dal punto di vista visuale e drammaturgico, ma che in realtà, in termini del tutto soggettivi accade ogni giorno. In “Dogs Don’t Wear pants”è in gioco la relazione tra la normalità quotidiana e questa realtà aumentata che viene rappresentata dal “dungeon” dove lavora Mona.

Cambiano i colori in queste due dimensioni che descrivi. Più in generale, i tuoi tre film hanno valori cromatici diversi, ma sempre molto importanti. “The Visitor” sfruttava una colorimetria desaturata, senza la componente rossa, “They Are escaped” faceva esplodere improvvisamente questa componente, mentre “Dogs Don’t Wear Pants” è immerso in una fotografia notturna dove il rosso e il nero dominano la gamma dei colori. Ti sei ispirato ad un’iconografia in particolare per questa scelta?

Volevo realizzare un passaggio graduale tra i due mondi, la normalità e il dungeon dove Mona lavora. Quello spazio è come un negozio di caramelle, per questo si passa da un mondo monocromatico con alcune dominanti ad uno con valori più saturi. Dal punto di vista di Juha, si parte dalla dimensione di una fantasia visuale e immaginale che include questa donna, per poi dissolvere questa stessa fantasia verso qualcosa di più quotidiano.

Il bianco e rosso di “Dogs don’t wear pants” mi ha fatto pensare al quasi bianco e nero di “The Visitor” in una prospettiva diversa e con risultati diversi, c’è una fonte iconografica comune, forse legata al cinema espressionista degli anni venti?

Penso sia del tutto inconscio, anche perché per “Dogs don’t Wear pants” molti dei riferimenti sono legati ad alcuni fotografi americani come William Eggleston e Saul Letier. Non sono certamente citazioni esatte, si riferiscono per lo più all’utilizzo della saturazione per quanto riguarda i colori, ottenuta con la pellicola invertibile.

E la fiaba? I due precedenti film che hai realizzato, mantengono una forte componente fiabesca

Si, è un elemento presente anche in “Dogs…” Juha deve andare in una direzione, verso la soddisfazione della ricerca.

….mi è sembrato presente quando Juha si avvicina a quello spazio misterioso, per accompagnare la figlia a farsi un piercing alla lingua

Si, assolutamente, ma è un elemento presente solo all’inizio, dopo si trasforma in qualcosa di diverso.

Da dove nasce l’idea di Dogs Don’t Wear Pants?

Nasce da un’idea della scrittrice Juhana Lumme, creditata come seconda sceneggiatrice nel film, anche se l’ispirazione principale arriva dal produttore Aleksi Bardy ben cinque anni fa, dopo la premiere di “They have escaped“, proiettata proprio qui a Toronto. Si trattava di uno script a cui gli sceneggiatori originali avevano lavorato per molti anni, senza ottenere una versione soddisfacente. Aleksi mi ha indirizzato verso l’idea centrale della sceneggiatura legata a questo contrasto tra la “perversione” del BDSM, con quella sacralità che attraversa l’idea d’amore espressa dal protagonista. La tensione a dirigersi verso la luce, ma solo uccidendo se stesso. Molte cose erano già presenti, ma lo script, così come era stato sviluppato, non era qualcosa con cui potevo relazionarmi. Per questo motivo ho dovuto riscriverlo dall’inizio.

Immagino che il passo successivo sia stato quello di approfondire il mondo BDSM di Helsinki…

Si, esattamente. Inizialmente lavorando su internet, sono entrato in una serie di forum sul BDSM per raccogliere alcuni stimoli, ma avevo bisogno di maggiori informazioni rispetto a quelle individuate, per entrare più a fondo nelle dinamiche. Volevo esplorare personalmente questi aspetti e mettermi nella posizione che mi avrebbe consentito di pensare alla storia del film, come sarebbe andata avanti, quali significati nascondeva una scelta di questo tipo. Un anno prima di cominciare a girare, quando abbiamo trovato i finanziamenti per il film, ho voluto incontrare una dominatrice professionista, con un’esperienza di 20 anni alle spalle. Era proprietaria di questa grandissima villa appena fuori da Helsinki, con 500 metri quadri adibiti a dungeon per le pratiche BDSM, distribuiti in una serie di stanze adiacenti. Ha letto lo script, direi con un certo disappunto, elargendo alcuni consigli sui modi e le espressioni di una dominatrice, criticando quindi le frasi troppo lunghe, soprattutto in relazione agli ordini perentori, che nella pratica BDSM necessitano solo di due parole, se non una soltanto. Ci ha dato molti consigli utili, arrivando a prestarci alcuni degli oggetti di lavoro che erano disposti nel suo dungeon.

Avete assistito ad alcune delle sue sessioni?

Naturalmente. Siamo tornati da lei una seconda volta, con gli attori, per guardare dal vero le sue sessioni di BDSM. Abbiamo assistito a tre sessioni separate. La prima delle tre l’abbiamo vista insieme a Krista Kosonen, che nel film interpreta la parte di Mona e alla fine della performance siamo rimasti davvero scioccati. Un’esperienza piuttosto traumatica, ma ci ha consentito di capire che tipo di energia si sprigiona durante quelle pratiche. La prima cosa che abbiamo visto quando eravamo nella posizione di assistere, erano le natiche di quest’uomo in ginocchio sul pavimento. Appena siamo entrati abbiamo avuto la sensazione che la dominatrice stesse disponendo il set per un film, erano come immagini e ha cominciato proprio con quelle più scioccanti, con quest’uomo di quasi cinquant’anni o forse più, in ginocchio sul pavimento, mentre ci mostrava tutto proprio durante il nostro ingresso nella stanza. Noi eravamo seduti in uno spazio laterale e lei si avvicinava sempre di più insieme al cinquantenne. Una sorta di rappresentazione sadomasochistica di stampo quasi teatrale, perché non era in gioco solamente la tensione tra lei e quell’uomo, ma anche tra lei e noi che guardavamo nella posizione degli spettatori. Dopo questa prima sessione ho cominciato a comprendere meglio che tipo di pensiero c’era dietro le pratiche BDSM.

Il modo in cui rappresenti pratiche e attitudini BDSM mette insieme crudeltà e fragilità, in forma reversibile. A un certo punto la vittima è più forte della dominatrice. Ti interessava indagare questo aspetto della sottomissione?

La dinamica include in realtà il modo in cui vengono soddisfatti i desideri altrui. Nel film e nelle sessioni stesse. Di chi è la fantasia e chi c’è al centro della stessa? Quali sono le dinamiche di potere e dove conducono? Aspetti che possono davvero confondersi. La prima cosa che ho pensato è che tutto il BDSM fosse un potentissimo mezzo per lavorare sulla storia di un uomo che doveva elaborare un lutto e la conseguente depressione. Il BDSM lo si può considerare anche come una sorta di “teatro”, sostenuto da un accordo reciproco, a un certo punto questo accordo si rompe. Tutti aspetti che mi hanno affascinato molto.

In che modo hai pensato a Krista Kosonen per la parte di Mona? Te lo chiedo perché mi sembra davvero perfetta!

(ride) Si, assolutamente, penso anche io che sia perfetta per il ruolo, ma ci ho messo un po’ di tempo a convincerla. Diciamo che Krista è quel tipo di attrice finlandese che se decide di portare a termine un progetto, significa che può davvero farlo. Era affascinata, ma i dubbi iniziali nascevano dalle modalità con cui avrebbe potuto davvero connettersi alla sua parte, per poi rappresentarla. Anche perché tutto quello che è scritto nella sceneggiatura è molto diverso dalle modalità di messa in scena. Pur essendo tutto molto grafico anche durante la lettura, si aprono altre possibilità quando giri un film, perché devi sistemare un set, inquadrare, inserire tutti gli elementi nell’inquadratura. C’è voluto del tempo per convincerla e il tempo non c’era più, proprio per questo a un certo punto le ho chiesto in modo molto netto di scegliere. Solo in quel momento non ha avuto dubbi e ha detto: “lo farò”. Quando è arrivata per la prima volta sul set per affrontare le riprese, ho sentito ancora esitazione e insicurezza nel suo animo, ma quando abbiamo girato la prima session, la prima scena in assoluto che giravamo, la connessione tra Pekka Strang (n.d.r. l’attore che interpreta Juha) e Krista ha raggiunto un alto livello di interazione e tutto si è rivelato facile, perché funzionava. Dopo le prime esitazioni quindi, Krista ha sposato il ruolo e l’ha abbracciato con grande divertimento, rivelando l’aspetto gioioso di questo personaggio così oltraggioso.

A proposito di Pekka Strang, interpreta una parte difficile, tutte le sequenze dove subisce la pratica del soffocamento sono molto intense e mi chiedevo con quale grado di coinvolgimento fossero state realizzate….

Durante i giorni in cui abbiamo filmato le sessioni avevamo un medico e un coordinatore che normalmente lavora con gli stunt. In tutte le situazioni Pekka era controllatissimo e pronto ad essere fermato e verificato in caso di bisogno. Mi sono chiesto come rappresentare gli strangolamenti in modo che fossero forti e allo stesso tempo sicuri. Con alcuni accorgimenti credo di esserci riuscito.

I personaggi di Juha e di Mona sono osservati da una lente differente. Le scelte di Juha sono legate al suo passato traumatico, ma di Mona non conosciamo niente tranne il tempo presente, è molto interessante questo diverso trattamento delle due psicologie, ci puoi spiegare il motivo di questa scelta?

I due personaggi in un certo senso si riflettono l’uno nell’altra e viceversa. C’è una sorta di parallelo. Su Mona e sulla sua vita precedente avevo scritto molto di più. Ma a un certo punto, quei dettagli hanno cominciato a mangiarsi la storia di Juha. Avevo bisogno di concentrarmi su quella storia. Offrire a Mona un background e un passato avrebbe implicato un trauma. Quell’ipotetico trauma avrebbe cambiato il nostro modo di vedere il BDSM e il suo ruolo di dominatrice, in una cosa completamente diversa. Per questo motivo volevo che lei abitasse quel contesto senza alcuna cicatrice, in modo da non mettere il pubblico nelle condizioni di leggere il significato e le ragioni delle sue scelte. Volevo che il BDSM non fosse caricato di un significato psicologico-traumatico, mantenendone la purezza.

A proposito di purezza e durezza del film, mi sembra molto forte il modo in cui la narrazione sia sottoposta a continui cambi di tono e registro, in una forma assolutamente realistica, dal dramma al melò fino alla commedia. Per esempio, penso alla sequenza in cui Satu (n.d.a. l’insegnante di musica della figlia Elli, interpretata da Oona Airola, già nota al pubblico italiano perLa vera storia di Olli Mäki“) e Juha stanno per fare l’amore. La reazione di Satu è divertente, ma anche tragica, perché racconta il punto di vista di un pregiudizio. Il cambio di registro ti è servito per creare questa ambivalenza del senso?

Non ricordo esattamente chi ha detto che la tragedia più il tempo è uguale alla commedia. Ad ogni modo, ho lavorato a questo script per quattro anni, ovviamente a momenti alterni e con alcune pause, perché era difficile trovare i fondi in Finlandia. Posso comunque dire che ci sono voluti almeno due anni e mezzo per trovare la chiave giusta. Era davvero una storia molto triste, ma quando aspettavo i fondi che non arrivavano, ho cominciato a lavorare ad un altro script, una mini serie ispirata al romanzo di un fine umorista finlandese, molto conosciuto nel nostro paese. Durante quel processo dove mi trovavo a sviluppare un lavoro a quattro mani, prassi molto diversa dallo scrivere in solitaria, lui rideva per le mie elaborazioni, una cosa molto appagante per me. Questo tipo di umorismo che veniva fuori dallo script, ha cominciato a filtrare verso “Dogs…”, che ancora non aveva quel titolo. In quel momento ho cominciato a scrivere alcuni frammenti divertenti per la parte di Juha e della sua partner, realizzando che funzionava, che era il tono giusto. Da quel momento in poi si trattava di trovare l’equilibrio tra i due elementi e penso che quel senso di contrasto di cui parli in relazione alla scena che coinvolge Satu e Juha, sia l’esempio più forte. La commedia è un risultato della mancata connessione tra questi personaggi, non hanno niente in comune, una cosa molto triste, perché in fondo ridono di aspetti differenti. Un umorismo doloroso.

In “They have escaped” , attraverso il linguaggio della fiaba, parlavi dell’abbandono sociale degli adolescenti finlandesi, come tra l’altro hai confermato in alcune occasioni. In “Dogs don’t wear paint” c’è una dimensione sociale che in qualche modo descrive i rapporti in una città come Helsinki?

No, non è qualcosa che sento come presente in questo film. Nel precedente rifletteva il mio stato mentale, mentre in questo caso non è il cuore di questa storia, dove c’è una dimensione maggiormente umana e universale

Mentre Juah sembra accettare il processo di una trasformazione in atto per raggiungere la verità della sofferenza e del sentimento, mi ha colpito molto il modo in cui la figlia Elli reagisce alla percezione altrui dopo aver scelto di farsi un piercing alla lingua. In quel caso la modificazione del proprio corpo viene rifiutata, è un contrasto padre-figlia molto interessante…

In realtà pensavo a come i bambini possano diventare forti tanto da prendersi cura dei propri genitori, un’idea molto triste. Forse non sempre a questo livello o in ogni famiglia, ma accade. Il coraggio dei bambini si manifesta come reazione alla prigionia subita dai propri genitori, a causa della loro depressione. Il film parla di varie forme di liberazione che le persone mettono in atto. La storia di Ellie è quella di una liberazione dalla bolla di dolore creata dal padre.

Chi ha realizzato le sculture che circondano Mona nel suo dungeon? Hanno un aspetto totemico e rituale molto forte…

La scultura è una delle prime immagini che avevo in mente per il film. Si tratta di un’antica armatura per la caccia agli orsi, risalente al 19/mo secolo. Quella che vedi nel film non è ovviamente l’originale ed è stata riprodotta per le nostre necessità. Quella figura trafitta l’ho subito assimilata a Juha, un’immagine che era presente sin dall’inizio.

Anche per questo film hai lavorato con Mervi Junkkonen per quanto riguarda il montaggio e con Pietari Peltola per la fotografia. Si è creato un sodalizio tra di voi?

Per quanto riguarda Pietari è la seconda volta che lavoriamo insieme, mentre Mervi ha montato tutti i miei film. Con lui c’è una sorta di apprendimento reciproco che attraversa tutto il processo di lavoro. Il montaggio è una fase molto sensibile e fragile, devi verificare il materiale che hai a disposizione ed è proprio in quel momento che vedi tutti i tuoi errori. Un processo a volte doloroso, quando qualcosa non funziona, ci vuole molto tempo affinché il film trovi la sua forma. Di solito questo accade nell’ultima settimana. Sia con Mervi e con Pietari, in generale, abbiamo un buon rapporto di lavoro e sensibilità molto simili, non abbiamo bisogno di parlare molto e ci intendiamo abbastanza velocemente.

La colonna sonora del film è stata curata dal compositore Ceco Michal Nejtek, è molto astratta, il suono sembra quello di un pianoforte trattato, quali indicazioni gli hai dato per la musica?

Durante la preparazione del film abbiamo cercato una co-produzione Ceca. Non abbiamo ricevuto finanziamenti diretti, ma abbiamo ottenuto un grande supporto da una compagnia Ceca, la Bionaut, che ci ha aiutato a trovare l’attrice per la moglie di Juah, Ester Geislerova e anche alcuni samples prodotti da compositori Cechi. Tra questi ne abbiamo scelto uno realizzato da un compositore di grande talento, Michal Nejk, che mi ha spinto ad ascoltare con attenzione tutta la sua musica. Dopo un primo ascolto, mi piaceva molto il suo lavoro da un punto di vista estetico e successivamente ci siamo incontrati. Michal non aveva esperienza come compositore per il cinema, perché lavora principalmente in ambito Jazz e in quello formativo come insegnante del conservatorio. Era assolutamente aperto a lavorare per un film e gli ho chiesto un mood differente dai suoi lavori, che fosse quindi ritmico, spaventoso, atonale, fornendogli alcune indicazioni approssimative.
Come primo materiale, mi ha mandato alcune tracce lunghe da uno a due minuti e le abbiamo montate con le immagini. Da quel momento in poi ha lavorato con musica e immagini insieme, remixando i brani e lavorando sulle cesure. Un lavoro facile perché ci siamo capiti al volo ed era entrato nel mood giusto. L’unico nome che è venuto fuori durante le nostre conversazioni preliminari, era quello di Toru Takemitsu. La musica di Takemitsu in “Kwaidan” e ne “La donna di sabbia” era quel tipo di sperimentazione che mi interessava. Takemitsu utilizza alcuni strumenti aerofoni facendoli collidere. La musica per “Dogs..” doveva avere quella qualità sonora.

Nuovi progetti in corso dopo “Dogs don’t wear pants”?

Sto lavorando a questa mini-serie di cui ti accennavo prima. La sceneggiatura è scritta a quattro mani insieme a questo umorista e romanziere finlandese, Kari Hotakainen. Sarà costituita da sei episodi, una commedia estremamente nera, davvero oscura, ma con molto umorismo. Un umorismo “orribile”, ovviamente.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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