Erika LaBrie si è innamorata per la prima volta della Torre Eiffel nel 2004. Niente a che vedere con la fascinazione estetica, la contemplazione per l’ingegno architettonico e la storia del monumento, ma una vera e propria attrazione erotica, completata da un forte sentimento di appartenenza, lo stesso provato per il suo arco da competizione qualche anno prima, origine della relazione sentimentale che ha intrattenuto per anni con oggetti di varia natura. Tra le parafilie, l’oggettofilia è una delle più discusse e controverse, stigmatizzata come un effetto secondario della sindrome di Asperger da alcuni psicologi, è stata affrontata ed analizzata empiricamente dalla stessa LaBrie con l’associazione Objectum Sexuality Internationale, dove le persone che sperimentano relazioni sentimentali e sessuali con oggetti, possono trovare un supporto.
Invece di demonizzarne le tendenze l’OSI spiega il livello di reciprocità tra persone e cose, la differenza con il feticismo, le forme di comunicazione e sessualità che intercorrono. Nessuna patologizzazione, ma il tentativo di riconoscere come legittima una comunità guardata con forte sospetto da qualsiasi contesto sociale. Tra le associazioni più suggestive e utili per comprenderne la portata, c’è quella con l’animismo, una relazione quasi sciamanica con l’oggetto che consentirebbe ad alcune persone di comunicare ad un livello profondo con l’inanimato. Erika ha in qualche modo piegato il mondo della comunicazione, polarizzando l’attenzione globale sull’oggettofilia, celebrando il suo matrimonio con la Tour Eiffel, grazie ad una cerimonia ad effetto allestita nel 2007.
La regista belga Zoé Wittock è partita da qui e dagli articoli dedicati all’evento, per confrontarsi di persona con la donna. La normalità di una storia d’amore che sfida le convenzioni dominanti è la sensazione che ha ricavato dalle conversazioni con Erika, motore fondamentale per la scrittura di Jumbo e per modellare il personaggio di Jeanne, custode in un parco di divertimenti. Interpretata da Noémie Merlant, la ragazza comincia a provare un’irrefrenabile attrazione per una ruota della struttura, una di queste lanciate ad alta velocità e inclinate sull’asse. Tecnologica e colorata da un’esplosione pop di colori, l’attrazione stabilisce il primo contatto con Jeanne durante una notte d’ispezione.
La storia, a dispetto delle dichiarazioni della Wittock, sembra desunta da una delle esperienze di Amy Wolfe, oggettofiliaca co-protagonista, insieme ad Erika e altre persone, del documentario “I Married the Eiffel Tower“, episodio della serie britannica Strangeloves, prodotto da Channel 5. Amy a un certo punto si reca in un parco attrazioni nella parte settentrionale dello stato di New York, fermandosi rapita davanti ad una grande giostra 1001 Nacht per ammirarne con trasporto erotico, il grande braccio meccanico che sorregge il movimento ascensionale e la corsa discendente delle cabine a forma di gondola.
L’ispirazione diretta per Jumbo sembra davvero provenire da questo piccolo frammento contenuto nel documentario della ITV Global, che la regista belga elabora mantenendo lo stesso contatto materiale tra corpi eterogenei, senza servirsi di ambigue traduzioni antropomorfe. Sfrutta, al contrario, le qualità meccaniche dell’oggetto e si inventa un sistema di codici comunicativi allusivi, legato alle funzioni tecniche della ruota.
Il clangore degli arti metallici, la sequenza di luci innescata come se fosse il corteggiamento di un pavone, assimila i primi contatti della ragazza con Jumbo, come se fosse l’avvicinamento tra due animali di specie diverse, tanto da sbarazzarsi da qualsiasi tentazione sciamanica, per elaborare una dimensione tattile e carnale che descrive l’avvicinamento tra due partner.
Questa scelta viene disattesa dai rari momenti in cui il film penetra lo spazio del sogno, rappresentato con un evidente sconfinamento verso l’estetica visual, ma anche quella di certa fantascienza, probabilmente nel tentativo di spingersi verso la raffigurazione di un’estasi amorosa che partecipi in egual misura di suggestioni metafisiche e della concretezza tecnologica.
Gli incontri con Jumbo si innestano nella struttura di una commedia di formazione, dove Jeanne deve affrontare i continui disequilibri relazionali con la madre, interpretata da una viscerale Emmanuelle Bercot, la cui vita è scandita da una relazione vorace con gli uomini. Questa ingordigia di vivere e d’amare, spingono la timida Jeanne nello spazio di luci, forme e colori che Jumbo può creare per lei: ventre accogliente, ma anche enorme presenza dalle braccia possenti. Le relazioni visive tra i due corpi vengono organizzate e visualizzate sollecitando un immaginario macrofilo, tanto da ricordare in alcune sequenze l’interazione tra King Kong e le sue prede femminili, con tutti i presupposti rovesciati da un libero scambio tra corpo e oggetto.
Si delinea una relazione sensoriale, protettiva, nutritiva e al contempo destabilizzante, totalmente liquida nello spostamento tra polarità che potremmo definire come maschili, femminili, post-umane; oggetti circolanti di una soggettività dispersa, dove sia possibile assemblare e disassemblare la relazione con lo sguardo inteso come produzione di senso. Soggetto e oggetto, Jeanne e Jumbo, scambiano ruoli e posizioni; cose tra le cose, smantellano e ricreano il mondo.
La Wittock segue le fasi della conoscenza carnale, elaborando per altre vie da quelle consuete, un discorso sul genere e sul confine che separa la normalità dall’indicibile, ciò che è proprio da quello che viene concepito come improprio.
Nonostante gli interessanti spunti teorici, che in parte lambiscono territori già esplorati da Donna Haraway, si ha la sensazione che l’immaginario costruito dalla Wittock, sia ancora troppo acerbo per evitare certi aggiustamenti consolatori. Da una parte, il superamento dello stigma e del rifiuto comunitario, verso la costruzione di una nuova utopia famigliare sembra condurre la struttura del teen movie verso traiettorie di una nuova consapevolezza, in grado di scardinare i molteplici sguardi del potere, nell’intreccio tra tecnologia e sessualità. Perché è indubbio che le sollecitazioni non siano legate esclusivamente al disinnesco della normatività eterosessuale, ma anche alla riappropriazione dell’oggetto tecnologico, strappato alla cultura coercitiva della sorveglianza.
La chiarezza “positiva” di queste riconfigurazioni diventa a un certo punto didascalica.
Pur nella libertà del gioco, che è la qualità anarchica migliore del film della Wittock, c’è il tentativo, pericolosissimo a mio avviso, di raccontare la migliore società possibile con un’apparente parodia dell’happy ending, identica negli effetti al suo opposto, limite di una pletora di commedie sulle famiglie disfunzionali costruite per il circuito d’essai, alla fine quasi tutte rassicuranti.
Ha uno sguardo certamente lucido l’autrice belga, soprattutto quando lascia massima libertà al corpo e alla sensibilità di una splendida Noémie Merlant, negli scontri con la madre e con lo sguardo sessualizzato del suo boss.
Manca del tutto quella crudeltà della relazione tra organico e inorganico, che può passare solo dalla trasformazione.
Ci è venuto in mente “Demon Seed“, il capolavoro di Donald Cammell interpretato da una sofferente Julie Christie. Il regista britannico, con la scellerata mancanza di “tatto”, morale e misura dei migliori visionari degli anni settanta, assumeva il peggior sguardo voyeuristico, re-indirizzandocelo contro attraverso l’occhio disumanizzato della tecnologia. Per quanto il tentativo della Wittock sia evidentemente opposto, ovvero uscire dalla dinamica binaria umanizzazione/disumanità della macchina, ci sembra che Proteus IV, l’enorme robot/AI mascolinizzato da una scienza violenta e misogina, a quarant’anni di distanza sia più in grado di dialogare e riflettersi sullo stato della tecnologia odierna, quella che controlla le nostre case, viola la nostra privacy e penetra i nostri corpi.