martedì, Novembre 5, 2024

Keith Emerson – at the movies: la recensione

Keith Emerson e il cinema, un sodalizio rimandato più volte e circoscritto ad alcuni episodi centrali nella sua carriera di compositore, i più memorabili limitati alla produzione degli ’80, in termini quantitativi gli anni che assorbono quasi del tutto la sua esperienza con l’immagine movimento. E se l’impatto cinematico degli ELP è già orientato ad una magniloquenza tutta Hollywoodiana almeno nelle intenzioni, la tendenza di Emerson a strafare avvicina forse quel pubblico di appassionati che amano l’eccesso e l’eccentricità, spesso fine a se stessa, deragliante verso un binario di bizzarrie fuori formato e inclini ad una selvaggia visionarietà di fondo.

Sono le due facce di un’epica strumentale che da una parte ha tutti i limiti dell’esplosione prog per le masse, dall’altra il delinearsi di una figura del tutto nuova e che prevede imminenti rivoluzioni nel contesto della musica per il cinema, quella che farà economia sulla struttura tradizionale dell’orchestra, individuando un uomo solo al comando, performer e conductor allo stesso tempo, circondato da un muro di sintetizzatori , autarchia che Emerson compositore per il cinema non affronta  immediatamente tutto da solo, ma che anticipa, esteticamente e come prassi, concentrando tutta la forza spettacolare dei concerti degli ELP sulla sua esibizione mentre affronta mostri come il Moog III C. In fondo, anche se la colonna sonora per “Inferno” di Dario Argento arriva più o meno contemporaneamente all’esperienza di John Carpenter con Alan Howarth, inserendosi rispetto a quel contesto in una prospettiva molto più tradizionale,  l’immagine che Emerson offre di se come “one man orchestra” è precedente; parliamo ovviamente di un’immagine “popolare” senza tener conto dell’esperienza solitaria di Eduard Artemyev oppure della colonna sonora di Forbidden Planet, la prima ad essere composta interamente con dispositivi elettronici alla fine degli anni ’50 e di grande ispirazione per il Carpenter compositore, come ci ha raccontato il maestro di Carthage in questa breve ma intensa intervista.

È lo stesso Emerson che definisce  “Tank” o tracce come “The Three Fates” vere e proprie colonne sonore orfane di un film, segno di un desiderio che tarda a concretizzarsi per una serie di occasioni non andate a buon fine. La prima è legata al tentativo di David Puttnam, grande produttore britannico (Lisztomania, I duellanti, Midnight Express) di coinvolgerlo per la colonna sonora di “Chariots of fire” a cui segue un rifiuto da parte dello stesso Emerson per impegni collaterali; la seconda è per le musiche di “The Elephant Man”, rifiutate dalla produzione del film di Lynch e affidate ad un autore più tradizionale come John Morris.

Il primo, effettivo lavoro per il cinema è quindi quello realizzato per “Inferno” di Dario Argento; Emerson vola fino a Roma e si porta dietro Godfrey Salmon per gestire l’orchestra, con la quale decide di lavorare in controtendenza rispetto alla prassi della composizione “sul film” mentre questo viene mostrato all’ensamble, la stessa recuperata in tempi recenti dai Calibro 35 e che il musicista di Todmorden preferisce evitare, chiudendosi in studio senza nessun’altra distrazione e di fatto confermando la sua attitudine al controllo di tutti i processi, quella che dopo la breve esperienza con i Nice contribuisce a creare un’epica accentratrice attraverso i primi quattro album degli ELP.

In un periodo di crisi produttiva e di idee, “Inferno” è l’occasione per rilanciarsi e rimane indubbiamente la prova migliore di Emerson compositore per il cinema, per quanto la misura non sia nelle corde del tastierista britannico, il risultato è una suggestiva commistione tra compostezza quasi Elgariana dell’orchestra, improvvise esplosioni dell’organico in una direzione espressionista e sopratutto un utilizzo del piano decisamente minimale se si pensa alla tendenza del nostro a mettere in campo tutto, tenendosi spesso in equilibrio tra folgoranti contaminazioni e repentini capitomboli tra gli eccessi del pezzo di bravura ad ogni costo.

Più in generale il background colto di Emerson viene filtrato in forme complesse ed eclettiche nella colonna sonora di “inferno”, maciullando cultura pianistica tardo ottocentesca, le sperimentazioni elettroniche degli anni 60 e quelle vocali di Luciano Berio in un magma di complessa definizione che per certi versi dialoga a distanza ravvicinata con il feroce surrealismo del regista romano.

Rimangono, anche se decisamente lasciati sullo sfondo, gli episodi rielaborati direttamente dal repertorio classico (Taxi Ride),  trasfigurazioni parodiche che dovrebbero far riflettere, per esempio, sulla differenza abissale tra l’idea di Emerson e quella del Lalo Schifrin che rilegge Bach.

Fatte salve queste eccezioni, “Inferno” mantiene ancora un fascino innegabile e molte delle intuizioni tastieristiche, quelle di derivazione “sacra”, Emerson se le porterà dietro sette anni dopo per la colonna sonora de “La chiesa” composta per l’omonimo film di Argento / Soavi. Il tentativo è quello di utilizzare le parti elettroniche e l’incursione dei synth (Mater Tenebrarum) come un vero e proprio attacco sensoriale, una distorsione della percezione che con altri mezzi era già nella musica del Morricone più oscuro e nei Goblin di Suspiria e che Emerson rielabora alla luce degli episodi migliori maturati con gli ELP nei settanta, trasponendo quelle intuizioni in un dialogo che in “inferno” è quasi tutto incentrato tra piano e orchestra, incluso momenti orientati a valorizzare la potenza dell’insieme, facendo collidere senza soluzione di continuità fughe ansiolitiche e barocchismi negati da improvvisi e violentissimi cluster; del resto la stessa copertina originale dell’album, identica alla locandina del film, sembra uno studio essenziale su quella di “Brain Salad Surgery”, due forme antipodali dove nel mezzo c’è  “inferno”.

Si può quindi cominciare da qui per consigliare il box che Cherry Red distribuisce con marchio Esoteric Recordings, contenente tre CD con tutta la discografia di Keith Emerson per il cinema, dalle colonne sonore composte in italia (Inferno, La chiesa e Murderock) fino alle esperienze americane (Nighthawks, Best Revenge) passando per i due film giapponesi dove il musicista britannico ha collaborato (Harmagedon e Godzilla Final Wars), il tutto in un arco temporale che procede con una certa frequenza dal 1980 al 1987, per poi arrestarsi fino al 2004, anno di pubblicazione dell’ultima colonna sonora realizzata da Emerson, quella per Godzilla Final Wars.

Gli unici due lavori dove Emerson impiega un’orchestra full range sono quindi Inferno e Nighthawks, entrambi realizzati con la conduzione di Salmon ma molto diversi nell’impostazione, considerata la propensione  funk della seconda colonna sonora, vicina a certe sperimentazioni di quegli anni che provavano ad imboccare la strada del dialogo serrato tra orchestra, parti elettroniche e un ensamble rock dentro l’organico complessivo, basta pensare al Jerry Goldsmith degli anni ’80.

Emerson mantiene un equilibrio notevole tra forma “soulful” e tensione drammatica, inserendo alcuni episodi “solo synth” che determineranno la parte successiva delle sue produzioni per il cinema, assorbite da quell’idea autarchica di cui si accennava, affrontata paradossalmente fuori tempo massimo rispetto alla sintesi estrema introdotta da Howarth / Carpenter, un paragone che ci serve per capire quanto il linguaggio di Emerson, dopo le prime due colonne sonore,  sia rimasto, proprio negli esempi esclusivamente elettronici, ancorato alla sua personale tradizione virtuosistica e spettacolare, mentre Carpenter si inventava eccentrici mostri sonori che scarnificavano la black music, re-interpretavano la musica concreta, scomponevano la scrittura novecentesca e infine rovesciavano la retorica rock.

Un esempio di come Emerson abbia cercato di rinnovarsi semplicemente aggiornando la dotazione strumentale, lasciandosi divorare da quello che gli succedeva intorno in termini di linguaggio è la colonna sonora di “Godzilla Final Wars”, composta interamente per synth, registrata, mixata e post prodotta con pro-tools insieme a Will Alexander, è un insieme di intuizioni tutte irrimediabilmente fuori tempo massimo, dove anche la prodigiosa inventiva tecnica del nostro scompare per far posto ad un pasticcio senza identità, passando dall’imitazione sintetica dell’orchestra a quella parodica dei Chemical Brothers di Hey Boy, Hey Girl, un po’ di House rimasticata e persino un frammento che strizza l’occhio a John Carpenter.

Oltre alle colonne sonore citate, il cofanetto contiene dieci minuti di “inferno extras”, divisi tra una Jam piano basso e tastiere con l’orchestra a sottolineare i momenti più spettacolari, davvero molto divertente, e una coda di effetti elettronici astratti e suggestivi, quasi di ascendenza Artemyeviana, ricordo di un musicista che ancora sapeva giocare.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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