Dal buio alla luce. Klondike inizia immerso nell’intimità casalinga del primo, con le voci di una coppia che ne sanciscono l’inviolabilità. L’esplosione di un mortaio piazzato a casaccio dai separatisti filorussi polverizza la parete del loro soggiorno, sventrando la casa e aprendola verso un orizzonte minaccioso. Irka e il marito Tolik si trovano improvvisamente al centro della guerra del Donbas, come osservatori di una realtà personale e famigliare, brutalmente disgregata.
La casa e l’ostinato radicamento della donna intorno alla piccola economia rurale costruita tutt’intorno, diventano la forza centripeta di Klondike, il cui scenario è costruito sulla persistenza dei gesti e delle abitudini quotidiane, mentre la violenza nega e cancella il loro stesso statuto.
Maryna E Gorbach, attiva dal 2009 e produttivamente divisa tra Turchia, Kyiv e Polonia, realizza il suo film più intenso e rigoroso, affidando all’uso specifico del piano sequenza l’unica possibilità per osservare la mutazione violenta della vita quotidiana al centro di un conflitto.
Lo spazio, svelato con lunghi travelling che entrano ed escono dal recinto abitativo, cambia di senso durante il percorso, inglobando più registri drammaturgici, non ultimi i frammenti situazionali di una commedia melodrammatica, seppur amarissima, che la regista ucraina ha già esplorato nei tre lungometraggi condivisi con Mehmet Bahadir Er fino al penultimo “Omar and us”.
La guerra preme dai margini della visione periferica, mentre Irka torna costantemente sui suoi passi per organizzare e coordinare la ricostruzione della casa, contro le preghiere del marito che spingono per una collocazione più sicura. Lo spazio a perdita d’occhio della pianura consente l’ingresso dell’inaspettato come un’aberrazione incongrua dello sguardo, un innesto violento che cambia la lettura del paesaggio stesso.
In questo senso Klondike è come un film impossibile, una storia famigliare interrotta, un plot che non può svilupparsi, ma che nonostante i continui sabotaggi, resiste e torna alle possibili origini del racconto comunitario: una casa, una donna, un uomo e una bimba in arrivo.
Irka non è certo Mr. Blandings, ma la sua tenacia sembra delineare un parallelo beffardo tra il sogno di una vita borghese che ha caratterizzato il secondo dopoguerra occidentale con quello legittimo, ma costantemente minacciato di chi è sempre vissuto in mezzo a guerre senza fine.
La prospettiva femminile, dilatata nel tempo e nello spazio, si contrappone alla condensazione degli eventi veicolata dalla violenza maschile, basta pensare alle cure che Irka riserva alla giovane mucca da cui preleva amorevolmente il latte, nonostante la parete appena sventrata, e il successivo, brutale massacro della stessa per mano di Tolik, in un asservimento totale e funzionale alle logiche del saccheggio imposte dai separatisti filorussi.
Irka percepisce che le radici identitarie del suo mondo vengono progressivamente cancellate attraverso un’assimilazione culturale che parte dalla distruzione di una piccola economia costruita con amore e dedizione.
Della guerra nel suo sviluppo iniziale, Klondike mostra gli effetti sulle relazioni e l’improvvisa surrealtà del paesaggio quotidiano attraversato dai relitti.
Colloca non a caso al centro del film il disastro aereo del 17 luglio 2014, quando il volo di linea della Malaysia Airlines partito da Amsterdam con destinazione Kuala Lampur, viene colpito durante il transito nei cieli del Donbas da un missile terra aria russo, causando la morte dei 300 passeggeri e disseminando detriti sulle case già colpite dai mortai, come quella di Irka.
Una fusoliera distesa sull’erba davanti alla piccola fattoria, diventa improvvisamente il segno di una modernità impazzita, sterile e distruttiva. Accoglierà lo sguardo dolente di una coppia olandese di mezza età, seduta sopra al relitto alla ricerca impossibile della figlia carbonizzata probabilmente nello schianto. Come altri oggetti derealizzati dalla loro funzione specifica, caratterizza la poetica tragica di Klondike nel mostrare la fine della civiltà attraverso i resti materiali: un televisore, un divano, la parete di mattoni distrutta e ricostruita più volte. Una terra dell’oro desertificata.
Nello scontro tra Tolik e Yuryk, il fratello di Irka schierato con l’esercito ucraino, la Gorbach delinea un complesso teatro di tensioni famigliari che inquadra tutti quanti come delle vittime. Il separatismo di Tolik non sembra esprimersi attraverso il radicalismo di una convinzione ciecamente ideologica, ma è animato dalla paura e dalla convenienza e in ultima istanza, dall’illusione che il sogno russo sia tale.
La fierezza che spinge Yorik a gridare contro Tolik “non sei un separatista, sei uno schiavo”, non può evitare morte certa per entrambi, ma riesce a non farsi inglobare dalla macchina disumanizzata del conflitto che costringe le famiglie ad uccidersi a vicenda.
Ciò che interessa alla regista ucraina è contrapporre le simmetrie maschili della guerra, come logica comportamentale che regola l’organizzazione predatoria della società, all’espansione generativa femminile nel tempo e nello spazio. Irka, con un movimento apparentemente illogico, rifiuta di salvarsi dalla zona del conflitto e di lasciare le sue radici, torna ostinatamente verso casa, quando tutti fuggono nella direzione opposta, chiede più tempo a Tolik e quindi di annullare la paura nell’espressione di un gesto di vicinanza tattile con il grembo, torna infine sul divano collocato davanti alla nuova voragine nella parete, per partorire una bambina da sola, mentre l’esercito separatista ha già disseminato morte.
La concentrazione di più livelli dello sguardo nell’unità tra sequenza e inquadratura, come abbiamo già detto, è la forza espressiva di Klondike e nella scena del parto raggiunge l’apice per intensità e orrore.
Quella voragine verso l’orizzonte, che abbiamo visto più volte nel film, torna di nuovo ma per designificare la guerra in corso con un segno di speranza generato dalla volontà. Un piano sequenza terribile e bellissimo, spes contra spem, agire invece di attendere.
Klondike di Maryna E Gorbach (Ucraina, Turchia – 2022 – 100 min)
Interpreti: Oksana Cherkashyna, Sergey Shadrin, Oleg Shcherbina, Oleg Shevchuk, Artur Aramyan, Evgeniy Efremov, Nadir Samedov, Anatolij Ohorodnyk, Amdrii Iaroshevskii, Danylo Savchenko, Oleksiy Konovalenkov, Tetiana Misik, Serhii Momot
Sceneggiatura: Maryna E Gorbach
Fotografia: Svyatoslav Bulakovskiy
Montaggio: Maryna Er Gorbach
Musica: Zviad Mgebry