giovedì, Febbraio 20, 2025

L’ Incroyable femme des neiges di Sébastien Betbeder: recensione – Berlinale 75 – Panorama

Nella splendida nuova avventura con l'alterità immaginata da Sébastien Betbeder, Blanche Gardin è un'anti-Amelie, un ponte tra due mondi, proiettato verso la fusione con il paesaggio. Su L'incroyable femme des neiges, visto a Berlino 75 nella sezione Panorama

Nel frequente e vitale cortocircuito tra nature e culture ricercato da Sébastien Betbeder, non è la prima volta che il regista francese si trovi a scegliere la Groenlandia come punto di osservazione.
Un punto che può essere alternativamente sognato oppure vissuto, con uno sguardo solo apparentemente ingenuo e desunto da numerose poliritmie linguistiche, ma che proprio in virtù di una sostanza cinematografica contaminata da altre forme, lascia ampi spazi di libertà allo spettatore, anche quello più distratto.

La superficie introduttiva de L’incroyable femme des neiges, sin dal titolo, dal lettering dei titoli di testa, dal minimalismo ludico e apolide degli Ensemble 0 di Stéphane Garin e Sylvain Chauveau, e ovviamente a partire da questa figura che si aggira stremata tra i ghiacci, sembra provenire dal rallentamento di un’avventura a fumetti di Jacques Tardi, giunta alla sua conclusione più tragica.
Eppure Colin Morel, interpretata da una vitale ed anarchica anti-Amelie come Blanche Gardin, assiderata nella distesa ghiacciata, muore e resuscita più di una volta in questa anti-fiaba che interroga costantemente punti di vista e stereotipie occidentali sulla vita, la morte e l’apocalisse, attraverso il filtro di alcune alterità.

Più della flanerie, che in altri film di Betbeder ricombina la prospettiva interiore a partire dal reticolo di occasioni urbane, quello praticato è il movimento della fuga come dispositivo che crea tensione tra il qui e l’altrove. La fuga, oltre la definizione che ci offre il neuroscienziato Jonathan K. Foster come di un movimento che tende alla perdita di tutte le tracce che possano ricondurre alla rappresentazione della propria identità, incluso il bagaglio mnestico, è il viaggio più estremo verso la ricerca interiore, la rescissione con un’idea di mondo e la sua ricostruzione altrove.

Con un’ellisse temporale che consente a Betbeder di azzerare il film, incorporandone più di uno, Colin, come dicevamo, muore e vive più di una volta e in quello che potrebbe sembrare un prologo, un flashback, un lungo intermezzo tra i ghiacci, l’esploratrice polare disabituata ai modi del piccolo centro da dove proviene, è una creatura aliena oppure un fantasma.  
Disadattata e antisociale come alcuni personaggi di Kervern/Delépine è completamente fuori luogo rispetto ad un ambiente che si è rassegnato ai comfort della provincia.
L’unica avventura montana che condividerà con i fratelli servirà ad acutizzare l’incolmabile contrasto tra i due modi di vivere e farà da innesco per una scomparsa in piena regola e la successiva rinascita tra i ghiacci.

Nella sezione centrale, che funziona come segmento disgiuntivo tra i due mondi, ma anche come straordinaria parabola fantastica dove hanno luogo tutte le trasfigurazioni, anche quelle più esotiche e irricevibili, Betbeder ricorre a quei registri comici che sono progressivamente cresciuti nel suo cinema, ma che trattengono il suo opposto più desertificato, proprio nell’innesco situazionale della gag, capace di creare divertito sconcerto ma anche atterrito spaesamento.

Gli incontri con l’ex amante, insegnante in una scuola primaria, vengono scanditi da un sabotaggio dietro l’altro. Il primo dove il linguaggio preposto per un uditorio infantile viene brutalmente sovvertito da Colin con un repentino passaggio dallo stupore creaturale, alla violenza dell’uomo sulla natura.
Il secondo, nell’appartamento dell’insegnante, quando la messa in scena del passato, tra foto ricordo e un esilarante confronto con il figlio dell’uomo e l’attuale moglie, si trasforma in una violenta espulsione dell’alterità dalle sicurezze del nucleo famigliare.

Ecco che la successiva assimilazione nella comunità Inuit, avviene attraverso un doppio sogno che disinnesca le illusioni avventurose dell’occidente.
Attraversato dal senso ineluttabile della scomparsa, una narrazione ormai frequente quando si parla di Groenlandia dalla prospettiva del cambiamento climatico, Betbeder non sceglie la via del racconto di ammonizione, rimanendo fedele a quei processi interiori che conducono all’annullamento di un orizzonte, visivo e sociale.

Ed è sorprendente che una storia di rinascita attraverso il rito di passaggio della fuga, si trasformi in una preparazione alla morte, riflessione che non è rara nella filmografia del regista francese.
La mitologia dei Qivittoq, figure di transito della cultura Inuit, spinge la ricerca di Colin fin dalla fase desiderante, quando i luoghi sono ancora confinati nello spazio del sogno.
Ma è proprio in quello spazio che gli Inuit abitano con una concretezza legata alla morfologia del territorio.
La fine del viaggio nell’isolamento glaciale è di volta in volta attribuita ai reietti, alle figure che decidono di isolarsi dalla comunità, ai fuggitivi. Colin è un Qivittoq fin dall’inizio e segue più volte questa traiettoria.
In Groenlandia apprende che il passaggio dall’esistenza ad un’altra forma di vita è completamente inscritto nel paesaggio a perdita d’occhio, e quando scorge l’ombra di una creatura tra spirito e animale, tra bestia e fantasma, questa scompare subito dopo come bagliore all’orizzonte, una fata morgana che solo i pazzi, i fuggitivi, i fugueur e chi è vicino alla morte, possono inseguire.

Il destino biologico di Colin allora, rispetto all’accanimento terapeutico dell’occidente, a cui la donna fa riferimento con una fulminante battuta su come vorrebbe immaginarsi i suoi ultimi giorni da questo lato del viaggio, può realizzarsi solamente in una comunità che non è legata alle semiotiche conosciute e coltivate da un’occidente che ha perso la capacità di fondersi con il paesaggio.

Sul clash culturale, ovvero lo scontro di significati che produce fraintendimento e distorsione, il regista francese si inventa una serie di gag irresistibili, che ribaltano costantemente la prospettiva e la collocazione dei segni. La più evidente, ma anche quella più stratificata, è quella dove il medico Inuit che diagnostica un cancro a Colin, comincia a cantare Champs Elysées di Joe Dassin in un francese quasi incomprensibile, che infonde una struggente estraneità, di tempo, luogo e lingua, riflessa sul volto della donna. Quella canzone d’amore che in qualche modo rappresenta un’identità parigina ormai cristallizzata nella nostalgia turistica, diventa una bizzarra e commovente elegia del commiato.  
La stessa inversione di segni che crea altre risonanze, anche esterne e persino incredibilmente predittive, è nell’intensità con cui uno degli abitanti del villaggio Inuit guarda su un piccolo televisore portatile a schermo catodico “Little big men” di Arthur Penn, stabilendo una connessione ideale con altri destini coloniali, passati e Dio non voglia, futuri.   

La musica di Garin/Chauveau assume un ruolo centrale nel film, proprio a partire da una marginalità ricercata e dalla fusione delle timbriche provenienti dalla cultura sonora asiatica, dai rumori distanti che fondono natura e tecnologia meccanica. Un post-folk che rievoca molte storie sonore, inclusa quella più strettamente legata al gioco di un compositore come John Cage, ma anche formazioni come Efterklang, Boxhead Ensemble, Rachel’s (n.d.r. Leggi l’intervista a Rachel Grimes, fondatrice dello storico ensemble statunitense qui su indie-eye) quando trovavano una via per sostituire la musica degli affetti con forme acusmatiche legate al field recording e ai rumori della natura, tecnologizzata o meno.

Una ricchezza semantica quella del nuovo film di Sébastien Betbeder che converge verso quell’annullamento dell’orizzonte visivo e interiore di cui abbiamo già parlato.
Più della dimensione mistica o della fascinazione esterna per un mondo lontano, da cui ci mette in guardia inserendo osservatori eccedenti, come i fratelli di Colin per esempio, è la conservazione del mistero in una prospettiva radicalmente deprivata da qualsiasi culto.

Per quanto l’idea del viandante montano che cerca un transito nella solitudine e lo stesso percorso culturale dei Qivittoq possano entrambi connettersi con le tradizioni animiste, Betbeder non gli assegna un significato univoco e con estrema fedeltà ad un cinema libero e combinatorio, anche rispetto alla contaminazione di più generi che pratica, preferisce una prospettiva laica, dove la scelta del modo in cui intraprendere l’ultimo viaggio, diventa un patto libero tra individuo e collettività, fuori da qualsiasi forma di ossessione, religiosa, tecno-scientifica e politica.

L’incroyable femme des neiges di Sébastien Betbeder (Francia 2025 – 101 min)
Interpreti: Blanche Gardin, Philippe Katerine, Bastien Bouillon, Ole Eliassen, Martin Jensen
Sceneggiatura: Sébastien Betbeder
Fotografia: Pierre-Hubert Martin
Musica: Ensemble 0

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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