In “Ki lo Sa?” Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin, Gérard Meylan si incontrano nuovamente, dopo aver passato l’infanzia insieme, per capire a quale velocità sono andati, rispetto a quella del mondo.
Colpisce dritto al cuore Robert Guédiguian quando in “La Villa” recupera una sequenza di quel film per mostrarci un altro détournement, non certo un semplice bilancio sulla vita di Angèle, Joseph e Armand quanto lo sguardo parallelo sul tempo dell’adolescenza, mentre l’odore lieve della morte occupa la casa di Méjan, in una baia vicino alla Marsiglia senza speranza di “La ville est tranquille“.
Il tempo non passa, ma sedimenta tracce che confondono i piani della visione. L’orizzonte è sempre quello del mare osservato dal vecchio patriarca, lo sguardo vitreo come un ictus che annichilisce il corpo e confina la memoria in una zona indicibile.
Da quello stesso mare giungono i desideri dei tre fratelli, nel tentativo di fermare qualcosa e non arrendersi all’inesorabilità della perdita.
In questo ennesimo e bellissimo ritratto di famiglia, dentro ma anche fuori lo stesso film, il regista francese non indica una visione univoca sulle diverse primavere dei suoi personaggi, proprio perché li conosce tutti fuori dalle necessità della finzione e dalla retorica della scrittura.
Non importa se la diversa spinta verso l’amore aiuta Angèle e Joseph a compiere, per esempio, scelte apparentemente opposte. Ad animarli sembra che prema un’energia che proviene dalla stessa sorgente. La paura d’amare, come se non fosse più il tempo e la necessità di tornare nel ventre della propria infanzia, perché l’amore è finito con un rifiuto, sono il frutto di un forte attaccamento alla vita, come capacità di vedere in profondità, rispetto all’illusione del futuro e all’irrealtà del passato.
Dimensione laicamente spirituale e ancora una volta politica, nonostante le apparenze. Non solo per l’epifania migrante che potrebbe cambiare la vita dei tre fratelli, infondendone di nuova al vecchio padre immobile sulla terrazza, ma per la capacità di accogliere l’idea del futuro come spinta vitale radicata nel presente.
Guédiguian filma i tre bambini come se fossero spiriti di una dimensione panteista capaci di dialogare con l’infinitamente piccolo della natura (i granchi, i pesci, l’aria, il vento, l’eco) e la minaccia della morte. Una conciliazione possibile, anche alla luce delle numerose rinunce che sembrano attraversare il film, tutte legate ad un’idea fierissima di vita, anche quelle che stabiliscono il diritto a porci fine senza l’intercessione dei santi e dello stato.
Accogliere quei nuovi figli del mare non è semplicemente un gesto politico o una spinta umanitaria, quanto la voglia di assorbirne il soffio vitale, come se non dovesse, ciclicamente, mai finire.