L’antropologia del soggetto perseguitato dai propri fantasmi che introduce nuove categorie della crisi a partire dal secondo dopoguerra, capitalizzava le grandi trasformazioni della società occidentale a cavallo tra ottocento e novecento, quando il totem della razionalità cominciava a vacillare, esattamente come era accaduto per i sistemi di pensiero legati alla tradizione. Dall’azione alla solitudine dell’anonimato il passo è breve e prima dell’esistenzialismo camusiano, autori come Proust, Joyce, Kafka, Musil, Pirandello e Italo Svevo, avevano descritto e anticipato personaggi che saranno centrali nella letteratura della seconda metà del secolo.
L’individualismo dell’uomo perseguitato dal potere e dalle istituzioni, subisce una radicale interiorizzazione ne “La Coscienza di Zeno“, dove la “malattia” del protagonista è un morbo che mina i fondamenti della ragione, complicando la nozione stessa di coscienza.
Si spalanca l’abisso della dissoluzione identitaria, attraverso una rappresentazione del mondo frammentato dal caos e il ruolo dell’individuo regolato dal caso.
Si perdono le tracce della tradizione, già rielaborate dall’insieme di conoscenze aggregate e ricodificate a partire dalle origini dell’Umanesimo, per riferirsi ad un nuovo sistema di segni e simboli.
La fenomenologia sveviana attinge quindi a tutte quelle suggestioni a lui contemporanee che ridefiniscono l’attività della coscienza a partire dal suo flusso. Stato dalla vita autonoma, scisso apparentemente dalla volontà del soggetto, sostituisce memorie con menzogne, inganna la provenienza di un ricordo, rimuove dettagli e ne inventa altri, nega e ricostruisce le origini dei traumi.
Il filtro freudiano che individua nei processi introspettivi il massimo della frode è una chiave d’accesso essenziale per consentire a Zeno di svelarne qualità e sostanza, attraverso il medium della scrittura autoanalitica, che può riuscire perlomeno a scrutare al di là del mondo interiore e al di qua della realtà fenomenica.
Pensiero e scrittura sono diverse entrate di una realtà palindroma dove l’esperienza può confinare con l’invenzione e l’immaginazione illusoria ricombinare la dimensione fattuale.
La scrittura può quindi ravvivare alcuni aspetti del vissuto, ma anche deformare la stessa nozione di flusso, se ci si illude di cristallizzare gli eventi nell’immobilità paralizzante della verità.
Il sentimento tragico dell’esistenza che rileva solo nel vuoto assoluto della morte il compimento di un destino, dagli anni venti del novecento, procede verso la decostruzione dell’io come sorgente non localizzabile. Una riflessione di nuovo al centro del dibattito contemporaneo, per esempio nell’accelerazione da umano a post-umano, basta pensare a “l’ordigno che non ha più relazione con l’arto” di cui parla lo stesso Zeno alla fine del romanzo, dopo l’abbandono del percorso terapeutico, un’intuizione che si spinge più avanti di tre lustri verso il secondo conflitto mondiale e che allo stesso tempo immagina, con feroce e visionaria lucidità, la marginalità dell’esperienza organica e l’estinzione di massa: “un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie“.
Paolo Valerio, nella sua messinscena de “La Coscienza di Zeno” accoglie queste e altre sollecitazioni, sin dal lavoro di organizzazione dello spazio teatrale concepito insieme a Marta Crisolini Malatesta, che ha allestito il grande salotto fatto da tende e drappeggi di enormi dimensioni. Una zona grigia del pensiero che serve ad accogliere l’elaborazione illuminotecnica e altre epifanie. Queste esondano spesso dal perimetro scenico e sfondano l’area rappresentativa.
Anche il grande occhio collocato al centro che domina scena e platea, è il primo e l’ultimo evento visibile a sipario chiuso.
Lo scopo non è semplicemente quello di spalancare una finestra sull’inconscio, ma di sconnettere l’attività dello sguardo dai processi di comprensione dell’essere. La posizione dello spettatore è in questo senso simile a quella di Buster Keaton nel film diretto da Alan Schneider e scritto da Samuel Beckett, dove l’occhio è meccanismo di sorveglianza, ma soprattutto velo che ci separa dalla sostanza degli eventi, magma inafferrabile di immagini e ricordi derealizzati che rivelano l’Io come parte di un continuo girare a vuoto.
Come Keaton, Alessandro Haber è saldato su una sedia e al posto delle fotografie strappate che occupano la grigia parete del “Film” beckettiano, si rivolge ai frammenti mnestici e immaginali che si avvicendano dentro la grande pupilla, grazie al lavoro visuale ideato da Alessandro Papa.
Sono elementi visual che sottolineano la parola, la anticipano e la negano, trascolorando nell’incertezza del ricordo e nelle infinite combinazioni della mistificazione rappresentativa.
Il testo sveviano viene trasformato in un gioco di specchi dove le luci tendono al monocromatismo e tutto ciò che ruota intorno al memoriale nevrotico di Zeno, assume posture e modalità espressive della ritrattistica fotografica borghese primi novecento.
Foto di: Simone Di Luca
Haber interagisce con la materia del ricordo come in moviola, compiendo un’operazione di regia sui corpi che gli danzano intorno, improvvisamente congelati nella postura grottesca e mostruosa di una temporalità aberrante.
Paolo Valerio allestisce con grande capacità combinatoria, attingendo da numerose suggestioni che rielaborano la cultura visuale del periodo appena successivo alle vicende che includono il viaggio mnestico di Zeno Cosini.
L’illusionismo onirico di Magritte occupa spesso la finestra centrale, mentre passano in rassegna paesaggi che dal mare alla luna, intessono una relazione metafisica.
Questa stessa direttrice che ci consente di guardare un paesaggio dentro l’altro, rompe gli argini dello schermo e inonda la camera oscura del palco, trovando una qualità espansa sulle pareti coperte da tende e velluti.
La pioggia, la luce che improvvisamente vira al rosso restituendoci la virtualità di immagini non ancora formate, le pagine del diario che improvvisamente volano via “col vento” della vita.
Rispetto alla sostanza immaginaria di Robert Desnos, osservata da Breton come un libro aperto che non trattiene niente, Zeno/Haber conduce le immagini dove vuole, le ferma quando non sembrano aderire al ricordo corrotto dalla volontà, anima i corpi della sua storia personale come fossero marionette di un teatrino kleistiano.
Foto di: Simone Di Luca
Pittura e fotografia, nello scambio simbolico e ontologico elaborato con il tramite delle riflessioni sulla materia e e sulla memoria, vengono incorporate in un’operazione densa in termini culturali, ma che riesce a mantenere la permeabilità di un gioco libero. Non importa se questa libertà assume i toni cupissimi e predittivi che designano la fine della storia collettiva.
La fedeltà di Valerio alla lettera sveviana segue altre direzioni, in una libera scrittura di scena che sul piano aurale si affida alle straordinarie distorsioni e sovrapposizioni fonetiche di Alessandro Haber.
Non solo il corpo dell’attore bolognese nell’avvitamento tra verità e finzione e nell’impossibilità di addomesticare i gesti e la grande energia entro l’involucro fisico, ma anche l’accelerazione del ricordo che contamina la parola stessa.
Chi ha scritto dopo gli spettacoli romani che alcune parole si perdono, non ha probabilmente considerato alcuni aspetti fondamentali, oltre al talento di Haber nel manovrare una materia incandescente come l’istinto. A tratti la voce assume altre funzioni rispetto a quelle denotative, trasformando la parola in magma virtuale e gettando sull’immagine apparentemente nitida del ricordo, la luce dell’ineffabilità.
Sfumano, allora, quelle figure che circondano Zeno, come tracce su materiali fotosensibili, fino a tornare al centro dell’occhio che scruta gli astanti.
Questo esce dai confini della cornice, sfonda l’inquadratura, invade la scena.
Sorveglia e non vede più vita cosciente, nel vuoto post-umano che ci attende e che non prevede attività contemplativa.
[Materiali fotografici concessi da Ufficio Stampa Teatro della Toscana – Foto principale dell’articolo di Simone Di Luca]
Di: Italo Svevo
Con: Alessandro Haber
e con: Alberto Onofrietti, Francesco Migliaccio, Valentina Violo, Ester Galazzi, Riccardo Maranzana, Emanuele Fortunati, Meredith Airò Farulla, Caterina Benevoli, Chiara Pellegrin, Giovanni Schiavo
Regia: Paolo Valerio
Adattamento: Monica Codena e Paolo Valerio
Scene e costumi: Marta Crisolini Malatesta
Luci: Gigi Saccomandi
Musiche: Oragravity
Video: Alessandro Papa
Movimenti di scena: Monica Codena
Produzione: Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Goldenart Production
14 nov 2023 21:00
15 nov 2023 21:00
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19 nov 2023 16:00
Biglietto Intero:
Platea € 35 – Palco € 29 – Galleria € 19