Anna Seghers ha scritto Transit, il suo romanzo più famoso, tra il 1941 e il 1942 in esilio in Francia, nella zona non occupata dalle truppe naziste. Pubblicato nel 1944, il testo parte da spunti autobiografici per raccontare il destino dei tedeschi contrari al regime, molti dei quali decisero di fare rotta per il Sudamerica superando una serie di ostacoli: i collaborazionisti, la burocrazia, le resistenze americane nei confronti dei comunisti. Transit è uno dei testi chiave del canone letterario tedesco orientale, trasposto per la prima volta nel 1991 da René Allio con Sebastian Koch e Rüdiger Vogler.
Prima della scomparsa di Harun Farocki nel 2014, Petzold fece in tempo a stendere col suo storico collaboratore un primo adattamento del romanzo, improntato a una riduzione all’osso degli eventi. La sceneggiatura definitiva segue il protagonista, Georg (Franz Rogowski), nel suo viaggio verso il nulla da Parigi a Marsiglia, topolino in trappola traumatizzato e quieto. Rispetto al romanzo, Petzold dà maggior rilievo alle figure femminili: Marie (Paula Beer), Melissa (Maryam Zaree), la donna senza nome interpretata da Barbara Auer.
La scelta registica più importante riguarda l’ambientazione. Non è uno spoiler, bensì un dato che va tenuto a mente prima di vedere il film: Transit non è un film in costume. Il passaparola lo etichetta come un adattamento moderno del romanzo di Seghers, ma in realtà gli eventi non vengono aggiornati. Georg è in fuga dal nazismo, sul suo passaporto è stampigliato “Deutsches Reich” ma la Marsiglia che vediamo è quella di oggi, senza alcun maquillage, la polizia è vestita con moderne tenute antisommossa. È evidente come il film sia stato girato nel qui e ora senza alcun accorgimento di tipo temporale. Una semplificazione, una ribellione ai dettami del dramma storico che può spiazzare e creare false aspettative. Transit non è nemmeno una metafora dell’attuale crisi dei richiedenti asilo. Nessun elemento del film punta in questa direzione. Petzold ha dichiarato esplicitamente di aver scelto, per pudore, di non toccare l’argomento.
Il punto dolente di Transit non è questa volontà di sottrazione che può ricordare i dettami della Berliner Schule. Quel che resta del film è purtroppo tedioso, ridondante, a tratti poco credibile. Il cinema di Petzold è permeato di fantasmi e scene-fantasma, sogni di cadaveri, fantasie delicate che giocano con gli elementi del racconto senza mai prendere il giro lo spettatore. Sono possibilità, desideri, strati extra del tessuto filmico. Dopo aver visto Transit si può ricorrere a questa lettura – ma per disperazione. La struttura perfetta di “Yella” (2007) è un miraggio.
Il cinema di Petzold gira a vuoto da dieci anni ormai. La piattezza di Transit ricorda gli adattamenti meno riusciti di Schlöndorff, non decolla né come storia d’amore né tanto meno come omaggio letterario, con la sua voce fuori campo rigida e irritante anche quando cita un film di zombi, forse l’unico vero momento in cui il corto circuito tra gli anni Quaranta e gli anni Dieci genera una scintilla nel cervello dello spettatore. “Road to Nowhere” sparata sui titoli di coda conferma il talento di Petzold per la scelta dei brani (Tim Hardin in “Die innere Sicherheit”, Julie Driscoll in “Yella”, gli Chic in “Barbara”), ma dopo tanta noia il titolo sembra quasi autocritica. A forza di togliere e pulire, capita che alla fine a mancare sia proprio il film.