Home covercinema La fille de son père di Erwan Le Duc: recensione

La fille de son père di Erwan Le Duc: recensione

Fin dal titolo, che indica uno slittamento della maternità nella paternità, La fille de son père riconfigura la priorità dei ruoli interni alla famiglia, come in un balletto costruito sulle strategie ritmiche del contrappunto. La recensione del secondo film diretto da Erwan Le Duc e parte del programma di MyFrenchFilmFestival, online su piattaforma dedicata fino alla fine di febbraio

La forza del sentimento amoroso investe Etienne e Valérie con la velocità di una stagione.
Erwan Le Duc si affida al movimento continuo della corsa e a quello dell’occhio mentre cerca di registrare le qualità irriducibili degli istanti. Nell’inseguirsi dei due corpi, la fuga imposta tutto il corso del film, anche in termini squisitamente musicali, a partire dai primi incendiari minuti, dove le immagini riflettono l’irrefrenabile rivoluzione interiore in uno spicchio di luce, nelle bandiere delle proteste studentesche, nei gesti d’amore che sembrano consumarsi, ma che in realtà scompaiono dal centro dell’inquadratura, prima di esser codificati pienamente.

Così, come era entrata nello spazio soggettivo di Etienne, Valérie scompare in un batter d’occhio.

La post-adolescenza viene improvvisamente sostituita dalla routine di un padre abbandonato, con la piccola Rosa da crescere e un nuovo equilibrio da forgiare su una diversa qualità d’amore.
Il tempo, convulso e contratto, non lascia per un solo istante l’immaginario di Etienne, girovago espulso dalla realtà, tanto da intrappolare l’elaborazione del ricordo fuori dal perimetro circoscritto del presente, proiettando la narrazione sul binario di una continua flanerie, dove il futuro ha i contorni di un orizzonte inafferrabile e il passato è un’ombra irrisolta.
Ed è sul fantasma di Valérie che Etienne costruisce una rete di rapporti basati sulla continua riconfigurazione dello spazio fisico e sull’incidenza metamorfica che questo esercita sull’identità dei personaggi.

Quando dialoga con il ragazzo della figlia ormai sedicenne, Etienne non scorge alcuna utilità nella dilatazione del tempo romantico che il giovane assegna alla concettualizzazione poetica di gesti considerati inutili, perché totalizzanti. “Non ho mai avuto vent’anni” è forse l’affermazione che più di tutte descrive la sospensione temporale del film entro un illusorio falso movimento che non può uscire dal continuo andirivieni.

Si recupera, in senso ritmico, alcune intuizioni di Jacques Demy sulle mutazioni ottiche del set, qui decostruito dal passaggio dei personaggi ricombinati nella coscienza di Etienne.
Non è un caso che le fugaci apparizioni di Valérie, icona del desiderio o minacciosa energia distruttiva, siano affidate a Mercedes Dassy, performer che ha fatto delle articolazioni tra corpo danzante e spazio, il luogo principale per accogliere metamorfosi politiche ed identitarie. Fugge come una danzatrice liberata dalle quinte verso un orizzonte marino senza alcun legame se non con il proprio corpo, mentre per Etienne, amare corrisponde alla forma pragmatica dell’azione, dove il potenziale emotivo si comprime e la performatività lo sostituisce.

La squadra di calcio che allena nell’amato campo destinato ad una riqualificazione radicale, è una delle funzioni necessarie per supportare questa etica del movimento. Ed è in quel luogo che assistiamo ad un’inversione della logica drammaturgica, nello scontro tra Etienne e la violenza materna agita dalla ferocissima Noémie Lvovsky, che nel film interpreta la sindaca del luogo, giunta ad annunciare con brutale arroganza e metodi mafiosi, la futura piantumazione dell’area. Più dell’esilarante inversione di senso che la donna mette in scena, veicolando le istanze woke di certo ambientalismo con l’arroganza del potere, c’è l’incapacità di Etienne di affrontare il vuoto.

La nuova casa pronta per il trasferimento di Etienne con la compagna e concepita per riempire nuovamente gli spazi con la presenza del legame filiale, si infrange con i desideri e le aspirazioni di Rosa, pronta a trasferirsi a Metz per frequentare la scuola d’arte.

La scansione è allora quella della commedia musicale senza l’ancoraggio delle liriche, ma è in questa apparenza floreale e in continua trasformazione, che sboccia la sostanza di un dramma dell’assenza.
Tutto il rapporto tra Etienne e Rosa viene condotto sul crinale di un’educazione sentimentale che progressivamente evidenzia il capovolgimento del ruolo padre-figlia.
Lo spazio vuoto rappresentato dalla figura materna è in quella foto-ritratto strappata, di cui ciascuno conserva un pezzo.

Fin dal titolo, che indica uno slittamento della maternità nella paternità, La fille de son père riconfigura quindi la priorità dei ruoli interni alla famiglia, come in un balletto costruito sulle strategie del contrappunto.

Nell’evidenza simbolica che in alcuni brevi momenti è una piccola debolezza del film rispetto alla formidabile radicalità funzionale del movimento, la liberazione di Etienne dalla distante intangibilità dei ricordi, è una commovente riappropriazione del proprio spazio rispetto agli obblighi famigliari.
Non più padre né celibe involontario, si lancia finalmente verso la scalata impossibile del desiderio.
Un gesto improduttivo, come la poesia, ma capace di vivere finalmente dentro il proprio movimento.

La Fille de son père di Erwan Le Duc (Francia 2023, 91 minuti)
Interpreti: Maud Wyler, Nahuel Pérez Biscayart, Camille Rutherford, Céleste Brunnquell, Alexandre Steiger, Mercedes Dassy
Fotografia: Alexis Kavyrchine
Sceneggiatura: Erwan Le Duc
Montaggio: Julie Dupré
Musica: Julie Roué

RASSEGNA PANORAMICA
Voto
Articolo precedenteBroken Rage di Takeshi Kitano, l’incontro con la stampa
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
la-fille-de-son-pere-di-erwan-le-duc-recensioneFin dal titolo, che indica uno slittamento della maternità nella paternità, La fille de son père riconfigura la priorità dei ruoli interni alla famiglia, come in un balletto costruito sulle strategie ritmiche del contrappunto. La recensione del secondo film diretto da Erwan Le Duc e parte del programma di MyFrenchFilmFestival, online su piattaforma dedicata fino alla fine di febbraio
Exit mobile version