La linea analitico-biografica utilizzata spesso per affrontate l’opera di Cornell Woolrich non ci sembra particolarmente stimolante, anche a fronte di una serie di equivoci che ha generato. Più interessante invece rilevare nei suoi lavori quel senso di isolamento trasversale, conseguenza dell’esperienza urbana esperita dai personaggi principali delle sue storie. Morfologia della città che emerge in particolare dai racconti brevi con una pertinenza che può essere considerata ancora viva, se si opera uno slittamento che ci consenta di decontestualizzare ansie e paranoie legate ad uno specifico periodo storico, ma ancora ben radicate nel modo in cui ci rapportiamo ai luoghi che abitiamo.
Storie come “Heavy Sugar”, “Rear Window”, “Fire Escape” e l’ultima scritta negli anni settanta, “New York Blues”, sono legate all’idea di isolamento rispetto alla comunità e all’osservazione del mondo esterno compiuta da una cornice di sicurezza, quasi sempre rappresentata da una finestra che separa il punto di vista del protagonista dalla complessa rete di relazioni inclusa nel rischio di vivere.
La dimensione scopica, come contrasto alla prigione dell’isolamento, non determina necessariamente un rifiuto del contratto sociale, ma si manifesta come tentativo disperato di comunicare con una realtà che non è capace di accogliere, ascoltare e comprendere i nostri segnali.
La prevalenza di finestre, così come la natura fallace della luce urbana, caratterizza i racconti di Woolrich attraverso una forma metadiscorsiva. Il voyeur allora diventa dispositivo stesso della narrazione in prima persona, sovrapposto allo sguardo del lettore nell’esercizio del suo stesso isolamento, fisico ed emozionale, rispetto al mondo rappresentato. Diaframma che assume un significato ulteriore se lo rapportiamo all’esperienza quotidiana delle relazioni mediate all’interno della città.
Il punto di vista attraverso il quale il mondo penetra è quello esercitato da una camera d’albergo, dalla stanza di un bambino, da una finestra che delimita lo spazio privato da quello collettivo.
L’osservazione diventa allora un atto reversibile: guardare a un certo punto significa anche esser improvvisamente visti, inclusi nell’atto stesso della visione o nel rovescio della palpebra, annichiliti da chi mette a nudo il nostro scrutare.
La città, luogo del molteplice dove lo spazio muta costantemente la disposizione dello sguardo, influenza l’esperienza con il suo paesaggio, con gli ostacoli architettonici, con l’illuminazione che impedisce la distinzione univoca tra forma e riflesso. Fenomenologia che può consentire il delinearsi di relazioni, ma che può anche interromperle, renderle più difficili, spingendo verso l’isolamento.
Spezzare l’esperienza solitaria, per i protagonisti della narrativa Woolrichiana equivale certamente a vivere, ma attraverso un incontro diretto con la morte.
In questo senso la relazione tra luce ed ombra viene invertita: ciò che consente di nascondersi, inclusi i recessi più oscuri di un segmento urbano, può salvarci la vita, mentre quello che si rende improvvisamente visibile, può rappresentare l’inizio della fine.
A cinque anni di distanza dalla prima pubblicazione di “Rear Window” come “it had to be murder”, nel 1947 Woolrich pubblicò dietro pseudonimo William Irish il racconto “The Boy Who Cried Murder“, riproposto un anno dopo con il titolo di “Fire escape” per l’inserimento all’interno di una raccolta di storie brevi.
Entrambi i racconti hanno una struttura molto simile e mettono al centro un osservatore che attraverso lo sguardo lanciato oltre una finestra, diventa testimone di un delitto.
Ad accomunarli, la dimensione voyeuristica slegata dai meccanismi del desiderio e inerente la soddisfazione gratuita nello scrutare le altrui vite.
Diversa però la relazione dei due protagonisti con il mondo osservato. Mentre Hal Jeffries in “Rear Window” partecipa alla vita del mondo esterno da una posizione fissa a causa dello stato di immobilità temporanea che lo costringe a vivere nel suo appartamento, il dodicenne Buddy scopre il mondo aprendo una finestra, prima sulla struttura del condominio dove abita, poi cercando la salvezza tra i recessi di New York.
La relazione di Buddy con la città è da un certo punto di vista più dinamica, ma conduce comunque alla stessa forma di isolamento vissuta da Jeffries.
In parte sviluppato sulla falsariga di “Al Lupo! Al Lupo!”, la fiaba attribuita ad Esopo, “Fire escape” è la ricerca della propria legittimità nella rete di relazioni famigliari e mondane, da parte di un bambino negli anni della sua formazione. Le continue menzogne raccontate agli amici e ai genitori, spiegano l’alienazione di Buddy rispetto ad una città che lo spaventa e che non riesce ad essere inclusiva per i suoi desideri e le sue narrazioni.
Una finestra separa camera sua dalla scala anti-incendio, questa gli consente di esplorare la diretta espansione del suo habitat, fino ad incrociare, attraverso un’altra apertura, il progetto criminale di due amanti.
Ted Tetzlaff, la cui lunga attività come direttore della fotografia si era conclusa nel 1946 con lo splendido lavoro sul set di “Notorious”, realizza il suo quarto lungometraggio nel 1949, portando sullo schermo “The boy who cried Murder” di Woolrich, cinque anni prima che Hitchcock aprisse “La finestra sul cortile”.
Prodotto a basso budget dalla RKO, fu l’occasione per la seconda sceneggiatura di Mel Dinelli dopo “La scala a chiocciola” di Siodmak, oltre ad imbarcare un veterano della fotografia come Robert De Grasse, la cui recente esperienza in due tra i film più importanti prodotti da Val Lewton influenzò certamente la New York minacciosa e contrastata di “The Window“.
Girato con amplissima profondità di campo per le strade della città, adotta uno sguardo non dissimile da quello di Jules Dassin per “The Naked City”, soprattutto per la modalità con cui la suburbia di Manhattan emerge nella sua dimensione più cruda e proletaria, prima della mutazione che ne modificherà irreversibilmente l’assetto.
Labirinto di acciaio e catrame, giungla tortuosa di edifici popolari e intricata rete di scale sospese tra un appartamento e l’altro, scopre a poco a poco un’umanità dolente che sbarca il lunario e non ha spazio per i sogni.
Nel ventre di questo mostro industriale, il piccolo Tommy, interpretato da Bobby Driscoll, sfortunata star disneyana, si muove come se il paesaggio fosse quello della campagna che desidera. Mentre racconta fandonie agli amici sul prossimo spostamento della famiglia in un grande ranch, Tetzlaff incorpora il suo sguardo entrando nelle aree dismesse, tra le macerie pericolanti, sui tetti dei palazzi, cercando di individuare una meraviglia impossibile da scorgere tra ferro e pietre.
C’è un continuo, incessante vagare senza pace in “The Window”, che da una prospettiva storica diversa e complementare, sembra incarnare l’eredità del dopoguerra con la stessa angoscia sperimentata da Edmund Koeler perso tra le macerie di Berlino.
La città vissuta da Tommy è uno spazio di confine tra miseria e sviluppo, inadatto ad accogliere il gioco, se non a costo di una disgregazione con la collettività che conduce verso lo spazio dell’alienazione.
Tetzlaff utilizza motivi visuali del noir per ghermire movimenti e gesti del piccolo Bobby Driscoll e confinarlo progressivamente nello spazio angusto della propria camera, habitat dove viene segregato dai genitori a causa del suo troppo immaginarsi un altro spazio e un’altra vita, contro l’orizzonte tetro della suburbia.
Racconto di formazione, certamente, fiaba innestata nel cuore nero della storia letteraria statunitense, come lo sarà sei anni dopo il crudele “The Night of the hunter” di Charles Laughton, ma con la forza transgenerica del noir, unico territorio convergente, allora e adesso attraverso le sue infinite incarnazioni, capace di raccontare il trauma della coscienza nello spazio urbano.
La scoperta della città per Tommy passa attraverso le luci e le forme filtrate dalla finestra della sua stanza; limite da superare per sovrapporre il racconto fantastico con l’esperienza diretta.
Tetzlaff insiste sul contrasto tra menzogna e realtà, incubo e verità, rilevando un punto di incontro nelle ombre prospettiche prodotte dagli edifici, capaci di attrarre e mentire sulla loro reale origine.
Ecco che il godimento dello scrutare, la scoperta attraverso le aperture dell’occhio, si manifesta in questo set ibrido, tra strada e studio, dove Tommy ricostruisce il percorso dello sguardo come momento in cui il sogno può coincidere con l’orrore, l’esperienza con la percezione della morte.
Da qui in poi “The Window” diventa un film “perverso”, dove il gioco è sinonimo di inganno e la finzione preludio di morte.
Quando Joe Kellerson, interpretato dal luciferino Paul Stewart, colloca il piccolo Tommy addormentato in equilibrio sulla ringhiera che guarda verso il vuoto, per causarne la caduta spontanea, lo spazio di una realtà intollerabile dove l’innocenza viene tradita sembra coincidere per un attimo con la dimensione onirica. Sonnambulismo improvviso che consente al ragazzo di rimanere a metà tra la sua condizione e quella di una realtà adulta completamente corrotta.
Il suo corpo abbandonato delimita ancora una volta la cornice tra visione ed esperienza, il vuoto indirizzato verso di noi e la fuga dentro lo schermo.
Il visibile nel film di Tetzlaff coincide quindi con l’indicibile, con quello che non può essere rivelato dalla parola, veicolo di fraintendimenti e falsificazioni.
Chi crederà a quello che Tommy ha visto dopo tutte le menzogne raccontate? E soprattutto, sono meno reali le fantasie che rivelano una resa dei conti tra cowboy in un’area sventrata della città, rispetto al manifestarsi della violenza tra i riflessi della luce notturna?
La metafisica negativa della città allora si rivela attraverso l’identificazione di uno spazio incongruo, fatto di elementi materiali e ombre, ferro solido e riflessi, labirinti di metallo e aree dismesse la cui praticabilità è compromessa, ma possibile. Una città in trasformazione, il cui stato di passaggio viene tracciato dallo sguardo di Tommy e dalla sua capacità di unificare le spaccature e gli ostacoli architettonici, prima ancora che il mondo degli adulti sancisca veridicità e legittimità per le sue visioni.
In fondo, prima di osservare attraverso il taglio della finestra il movimento dei due corpi mentre ne uccidono un terzo , porterà con se un cuscino, quasi per trasporre all’esterno la dimensione immaginifica del sogno.
E al salto nel vuoto evitato, corrisponderà l’invito ad abbandonarcisi, per superare la paura di tornare in mezzo ad una New York altrimenti inospitale. Da un edificio pericolante fino al centro di quell’occhio illuminato che lo attende.
Precipitare, di nuovo, tra le braccia della città.
La Finestra socchiusa (The Window, USA 1949 – B/N – 73 min)
Regia: Ted Tetzlaff
Sceneggiatura: Mel Dinelli
Fotografia: Robert De Grasse e William O. Steiner
Musica: Roy Webb
Montaggio: Frederic Knudtson
Interpreti: Bobby Driscoll, Arthur Kennedy, Barbara Hale, Paul Stewart, Ruth Roman