“La tua vita è un dono prezioso dei tuoi genitori: per favore pensa ai tuoi genitori, ai tuoi parenti e ai tuoi figli. Non restare solo con i tuoi problemi, parlane.”
Recita così uno dei cartelli disseminati per il percorso che porta all’ingresso della foresta di Aokigahara, situata alle pendici del monte Fuji in Giappone. Un avvertimento per gli aspiranti suicidi che lì vogliono trovare la morte. “La più bella foresta abbandonata e selvaggia che esista, un posto perfetto per morire in segreto.”, la definisce Seichō Matsumoto, giornalista e scrittore giapponese che nel 1960 pubblicò “Kuroi Kiju” (letteralmente ‘mare nero di alberi’), dove mistero e coincidenza si intrecciano indissolubilmente con la realtà. Il romanzo termina infatti con il suicidio disperato di due amanti ad Aokigahara, e dal momento della sua pubblicazione, come un terrificante segno premonitore, il numero dei suicidi sull’isola (soprattutto attraverso l’impiccagione) aumentò visibilmente.
Ed è questo mare nero, la foresta, tòpos ricorrente nel sentire cinematografico di Van Sant, a porsi qui come vero e proprio essere vivente che agisce sulle coscienze, come gli “yurei”, spiriti senza pace dei suicidi che abitano quel luogo e che attirano i passanti, spingendoli ad affogare l’anima insieme alla loro. Che Takumi Nakamura (Ken Watanabe) l’uomo nel pieno di una profonda crisi che Arthur Brennan (Matthew McConaughey) incontra dopo alcune peregrinazioni nel bosco, non sia una di queste anime vaganti?
Quello di Aokigahara è un ruolo non dissimile da quello che la natura riveste in “Last Days”, il viaggio nevrotico di Kurt Cobain che vaga in solitudine per un bosco. Esso è un luogo che turba perché mette in contatto l’individuo con la propria solitudine nella più totale assenza di rumori. Uno spazio accentratore e allo stesso tempo repulsivo che si fa carico di accogliere le tempeste interiori di chi vi si addentra.
Con una ricerca online, Arthur Brennan intende rintracciare ciò che per lui potrebbe essere “a perfect place to die”, una valida alternativa alla fredda degenza in un letto d’ospedale, destino a cui pare essere costretta la moglie Joan (Naomi Watts), colta da un’improvvisa malattia che va a mutare in profondità l’assetto della loro relazione a pezzi.
Il rapporto sentimentale, in questo caso, è configurato come un gioco al massacro nel quale si innesca una spirale vertiginosa senza fine, un ricettacolo dei molti mali che affliggono la società contemporanea. Da qui il blocco, l’inibizione, l’assenza di una vera comunicazione che porta alla morte dell’individuo, alla morte dell’amore.
Gus Van Sant riesce bene a trasmetterci questo senso di ineluttabilità che nasce e si trascina in certe coppie annoiate, riversando sul piatto ogni tipo di sfaldamento della relazione, nella quale gli individui in una sorta di volontà masochistica si avvelenano vicendevolmente, appesantendo ogni cosa con la conseguente recisione del desiderio.
In questo senso, i litigi dei coniugi Brennan in salotto, ci ricordano tanto le dinamiche con le quali Martha (Liz Taylor) e George (Richard Burton) si divorano e si fanno letteralmente a pezzi in “Who’s Afraid of Virginia Woolf?”. Se nella pièce teatrale di Edward Albee riadattata per il cinema da Mike Nichols, la coppia si costringe a rimanere insieme per quel figlio mai nato che diviene più una giustificazione che una motivazione reale, Arthur e Joan si sostengono misteriosamente in ragione di un conto in banca in comune e di una sorta di competizione basata sul costante rinfacciamento: la Virginia Woolf squilibrata e suicida è allora presente anche qui, con la sua spinta mortifera.
Ciò che spezza tale circolo è appunto la malattia, non più intesa come male da combattere, ma come un agente purificatore che sfonda l’involucro che teneva imprigionati i sentimenti, dando vita a una nuova riscoperta tra i due, che imparano ad ascoltarsi, a conoscersi, intersecandosi davvero come due sconosciuti innamorati per la prima volta.
Il momento di deflagrazione sul finire del film non pone la parola “fine” sulle vite dei Brennan; al contrario, si verifica uno di quei fenomeni che i buddisti chiamano “non statici”, nei quali si attuano dei mutamenti continui che si basano sul concetto di impermanenza. “La causa della disintegrazione finale di una relazione sta nel suo venire in essere, nel suo sorgere. La causa della sua fine è il suo inizio.” Dunque, in qualche modo, la redenzione, il gesto nella direzione del recupero del sentimento, giunge in ritardo sugli eventi.
La speranza che emerge da questa apparente fine, però, risiede nel continuum mentale, ovvero la continuità delle esperienze di vita: c’era vita prima dell’amore e continuerà ad esserci anche dopo.
Esseri umani? Essere umani.
Non siamo cerchi concentrici, anime sorelle, ma orbite distanti anni luce che misteriosamente, imprevedibilmente s’intersecano.