È da Entre adultes che il cinema di Stéphane Brizé documenta dall’interno la vita quotidiana avvicinandosi alla fenomenologia dei rapporti senza assecondare uno sguardo drammatizzato, ma al contrario rivelando gesti scarnificati e scabrosi nella loro verità essenziale. Più l’occhio del cineasta francese si avvicina all’essenza di un sentimento più questo diventa irraggiungibile. Nella collaborazione condivisa con Vincent Lindon a partire dai precedenti Quelques heures de printemps e Mademoiselle Chambon, si assiste ad un progressivo depotenziamento della presenza fisica dell’attore francese fino ad evidenziarne gli aspetti crepuscolari nell’inesorabile assorbimento con l’ambiente e in una direzione più radicale rispetto al modo in cui questo stesso processo avviene nei film di Philip Lioret o di Claire Denis, che ancora mantengono una relazione tattile con quella fisicità.
La loi du marché è in questo senso la prova più radicale di Brizé, non solo per le ambizioni volutamente antropologiche di tutto il progetto, ma per il modo in cui lo stesso Lindon diventa parte di una realtà effettivamente esperita da un punto di vista precario, a tal punto da spingere la sua prova attoriale in uno spazio dove la condivisione diventa indistinguibile dalla trasfigurazione drammaturgica. Per quanto il risultato possa sembrare freddamente distante è in realtà più immersivo rispetto ai pedinamenti Dardenniani. Brizé coglie tutto nello stesso istante senza staccare l’ambiente dalla soggettiva del personaggio principale, allineando il punto di vista a quello disumanizzato dei dispositivi di sorveglianza per realizzare la sua personale versione de L’argent Bressoniano, dove la presenza “fisica” del denaro viene sostituita con le superfici che annientano la presenza soggettiva.
Sia che si tratti della vendita di un vecchio caravan, di un colloquio di lavoro via Skype, delle discussioni sindacali che girano e vuoto ed infine del lavoro di Thierry Taugourdeau (Lindon) come responsabile della vigilanza all’interno di un ipermercato, le figure che si avvicendano perdono le caratteristiche definite dei personaggi rivelandosi attraverso gli aspetti più indicibili delle loro fragilità. Interrogati come criminali in uno sgabuzzino perché sorpresi a rubare due confezioni di carne fresca o i buoni sconto destinati ai clienti e vietati per i cassieri, vengono filmati da Brizé davanti ad una parete bianca, isolati da qualsiasi relazione dialettica e definiti attraverso l’isolamento, anche visivo, della loro condizione come se fossero animali in gabbia.
Se Cantet ne L’emploi du temps evidenziava lo scollamento tra corpo e funzionalità dello spazio, come accade per i “ritornanti” del suo consueto sceneggiatore Robin Campillo, attraverso personaggi che in qualche modo sovvertivano le regole generando un corto circuito anche paradossale con tutte le forme del contratto sociale, l’impostura del lavoro viene individuata da Brizé come una regola che definisce tutto il tempo e tutto lo spazio, senza consentire alcuna rottura e osservando l’intera comunità come parte integrante di una ripetizione coattiva.
Il mercato è allora il vero e proprio fuori campo del film di Brizé, un mostro invisibile che non viene rappresentato attraverso la persistenza della merce, mentre preme minacciosamente dall’esterno oggettificando la visione e i gesti quotidiani, svuotati da qualsiasi dimensione affettiva.
Quando Thierry si dichiara contento per il nuovo lavoro oppure accetta di buon grado le indicazioni del promotore finanziario durante l’accensione di un nuovo mutuo così come i giudizi di un datore di lavoro che esamina i candidati via Skype senza il rischio dello scambio vitale, esprime la stessa mancanza di empatia dimostrata con i responsabili dei piccoli furti, impermeabile alle loro richieste e giustificazioni, rigoroso e indifferente per necessità.
Anche nella contrattazione per la vendita del caravan Brizé rende percepibile l’assenza di uno scambio sociale chiudendo i personaggi dentro lo spazio angusto del van, luogo di condivisione famigliare per eccellenza trasformato in una prigione, dove l’unica attività dialettica è quella economica, legata alle condizioni di quattro persone che rimangono a galla senza più riconoscersi.
La presenza autoriale di Stéphane Brizé rimane assente, ritraendosi dai pericoli dello stile con un nitore quasi accecante, così come il difficilissimo lavoro di erosione operato da Lindon sulle sue qualità interpretative, una riduzione dell’ego possibile solo per un grande attore e un regista di talento.