I parametri del racconto di formazione non vengono cambiati radicalmente nell’esordio di Antoine Chevrollier. Il regista francese sceglie una strada non facile per un’opera prima.
Segue infatti i mutamenti interiori dei suoi giovani personaggi attraverso i toni di un cinema diretto e apparentemente umorale, che non cede alle strategie narratologiche del contemporaneo, ma recupera in un certo senso l’attenzione ai volti, ai gesti e al circostante come emanazione fisica e individuale, per come la conoscevamo attraverso certo cinema francese degli anni novanta.
Più degli snodi strutturali allora, è il modo in cui gli attori abitano e attraversano gli spazi, obbligando ad un’analisi in profondità che cresce durante la visione. Non è allora l’agnizione intesa come torsione improvvisa del racconto, ma la volontà di agire e di sottrarsi alle regole prestabilite della narrazione che rivela allo spettatore le collisioni continue interne all’educazione sentimentale degli individui in gioco.
Ambientato a Longué-Jumelles, una piccola città della provincia francese dove il tempo a perdere è l’unica possibilità di sopravvivenza rispetto ad una realtà modellata dai sogni e dai desideri interrotti degli adulti, descrive l’amicizia inossidabile e di lungo termine tra il giovane Willy e il coetaneo JoJo.
Proprio questo reincarna qualità e aspettative dei padri, fondatori di un circuito per motocross.
La pressione competitiva fatta di forza e disciplina, coincide e allo stesso tempo stride con la ribelle anarchia ormonale di JoJo. Destinato a subire la feroce mascolinità del contesto, rivela altri desideri rispetto a quelli che cementificano la comunità, più in linea con l’erotismo assoluto ed elettrico che attraversa il suo corpo, quando è in sella oppure nell’amore incondizionato per il coach del circuito.
Willy, orfano di padre, vive diversamente la relazione con i motori. Occasione di libertà e di radicamento, non attivano l’amore per la competizione, se non attraverso la versione più comunitaria de “La Pampa”, luogo di scambio cameratesco eminentemente maschile, la cui chiusura sarà interrotta solamente dall’arrivo di Marina, anima già in fuga dalle angustie della provincia.
Su queste linee direttrici, che separano in modo doloroso la realtà genitoriale da quella filiale, Chevrollier esplora l’urgenza della corsa e le contraddizioni dei piccoli centri, attraverso l’esperienza di un tempo sospeso, dove niente cambia e ogni movimento, esterno e interiore, sembra assorbito dalla forza centripeta della pista.
Per Marina la dimensione locale sembra congelata negli anni cinquanta, mentre Willy vive tra l’energia indiretta dei motori e la decadenza di spazi defunzionalizzati, dove aleggia lo spettro del padre, ricatto della memoria che lo obbliga a vagare inquieto in questa desolazione senza orizzonti.
E in una delle sequenze più belle del film, la fotografia satura e putrida di Benjamin Roux, segue Marina e Willy nella vecchia casa occupata dal padre, uno stabile in demolizione percorso dai due ragazzi dopo l’inalazione di protossido di azoto da due palloncini. In quegli ambienti spettrali il gas li induce a ridere senza requie, fino a quando il dolore e la paura si sovrappongono agli effetti esilaranti, creando sul volto di Willy una delle maschere più belle e dolenti della gioventù, viste al cinema negli ultimi anni.
Su questo crinale, immediato ma sottile, diretto ma lasciato nel flusso mutevole dell’esperienza, Chevrollier semina le tracce di una tragedia estrema, dove sono i padri e le madri a decretare la morte dei figli, a seppellirne i desideri, a violentarne tutte le speranze all’ombra dei propri fallimenti.
Eppure, il regista francese, invece di chiudere la propria idea di cinema nel recinto di un nichilismo tematico e formale, sceglie l’apertura della libertà e dell’emancipazione da qualsiasi modello, come propellente formativo essenziale.
Deragliare dal circuito, uscire dai confini terribili e autodistruttivi della provincia, e soprattutto rovesciare la prospettiva apocalittica nella rivelazione positiva di una nuova possibilità.
Su quel nuovo mondo è proprio Maria nella sua pratica artistica che include la revisione e la rielaborazione di grandi opere, a suggerire il significato che ogni giorno le rivela il lavoro sugli arazzi di Angers. Lo sguardo sull’opera finita di tessere dall’arazziere Robert Poisson alla fine del 1300 è quello del rinnovamento. Una rimessa in scena dell’opera che esce dalla dimensione del disastro per indicare altre rivelazioni.
Ed è in quello strano dono stereoscopico che viene recapitato a Willy senza che la donatrice si palesi, che ancora risiede la forza creativa di un piccolo protocinema intimo, attraverso il quale il mondo interiore, quello che lega JoJo a Willy oltre la morte, può essere osservato da un oculare capace di rivelare un altro piano di realtà.
La fuga allora è semplicemente un’uscita di scena, per entrare finalmente nel mondo.
La Pampa di Antoine Chevrollier (Francia 2024, 104 min)
Fotografia: Benjamin Roux
Sceneggiatura: Bérénice Bocquillon, Antoine Chevrollier, Faïza Guène
Interpreti: Damien Bonnard, Mathieu Demy, Léonie Dahan-Lamort, Sayyid El Alami, Florence Janas, Amaury Foucher, Artus Solaro
Musica: Jeff Genie