lunedì, Dicembre 30, 2024

La Tana di Beatrice Baldacci: recensione

Il bel film di Beatrice Baldacci, in sala dal 28 aprile, è una potente riflessione sul fine vita, ma anche sulla persistenza e la scomparsa delle immagini, come esperienza del limite e del loro disintegrarsi nel buco nero della memoria. La Tana, interpretato da un'intensa Irene Vetere, è stato realizzato nell'ambito di Biennale College e dopo la presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia, ha vinto il premio Raffaella Fioretta per il Cinema italiano, alla Festa Del Cinema di Roma. La recensione in anteprima

Le immagini della memoria nel lavoro di Beatrice Baldacci, creano una tensione diversa rispetto a quelle responsabilità culturali che animano il cinema d’archivio più normativo. Era così anche in Supereroi Senza Superpoteri, il progetto prodotto dall’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico e quindi quello più marcatamente sviluppato nel solco del found footage. In quel caso, il racconto della propria formazione famigliare e il rapporto con la madre, venivano ricodificati attraverso il recupero di VHS sull’orlo della smagnetizzazione, cercandone l’aura nella distanza della temporalità raggelata.

La Tana, il primo film di finzione della regista umbra, costruisce una relazione più sottile con i supporti e le registrazioni materiali della memoria. Questi sono sempre presenti sotto forma di assalti visivi e aurali, tanto da creare una dimensione della coscienza che si misura con la materialità del mezzo, ma la cui provenienza rimane nell’incertezza vitale e dolorosa dell’esperienza privata.

Lia compare d’improvviso nello spazio campestre di Giulio. Rompe la fissità della natura addomesticata dal rituale contadino, per rivelarne la matrice più istintuale e distruttiva. Suggerisce quindi che le origini caotiche e irrazionali, possono arricchire e complicare la relazione scopica, culturale e protetta che abbiamo usualmente con il paesaggio.

Il corpo di Lia diventa un bioma complesso per Giulio, osservato dal ragazzo nella sua ribelle nudità, emerge dalle acque per concedere e improvvisamente negare l’integrazione con qualsiasi sguardo.

Irene Vetere viene liberata dall’occhio della Baldacci nelle sue caratteristiche più potenti, quelle di un volto e di un corpo irregimentabili, che segnano un limine alieno rispetto a qualsiasi definizione identitaria.

All’interno di quello che sembra delinearsi come il racconto di una dolorosa educazione sentimentale, esplodono alcune interferenze visive, sottolineate come improvvise reverie percettive attraverso la disomogeneità dei formati. Inserti video che rivelano l’interiorità di Lia mentre si allontana da Giulio lungo i campi, immagini notturne che mostrano una prossimità tattile del dispositivo alla natura, rispetto alla cornice stessa del film.

Elementi che sembrano minacciare la psiche come un virus, ricombinati e ri-mediati successivamente dalla relazione protetta e nascosta con la madre e dalla malattia degenerativa che la tiene irrimediabilmente separata dal mondo percepito.

Ecco che quelle registrazioni visive, memorizzate, recuperate, filmate per la prima volta con lo smartphone, rivelano la qualità di un tramite tra madre e figlia, nell’inesorabile disintegrarsi delle immagini nel buco nero della memoria.

Un’immagine che scompare offre il senso alla nostra stessa scomparsa, ma allo stesso tempo è l’innesco dell’idea di transitorietà ad investirla di un’aura che credevamo empiricamente irrecuperabile.

Questa segna il limite tra esperienza e morte, proprio nella reiterazione di una realtà già mutata.

La Tana, che la stessa Beatrice Baldacci definisce come quel luogo irreale dove ci andiamo a nascondere quando la realtà è troppo dolorosa, ci è sembrato anche uno spazio immaginario dove il limite è drammaticamente rappresentato dall’opacità stessa dell’immagine rispetto alla transitorietà dell’esistenza.

L’accanimento di Lia nel ricreare un mondo di ombre e luci che possa ricondurre la madre al centro di quella natura tanto amata, si infrange con l’inscalfibile persistenza del dolore e l’inesorabile disintegrazione della persona.

Quando le immagini, sempre in bilico tra opacità e trasparenza, rappresentazione e negazione, non riescono più ad essere parte di un’esperienza percettiva incarnata, oltre il dominio stesso dell’occhio, si può rispondere alla riproduzione tecnica della vita, quella che politicamente nega il diritto della scelta, con la possibilità di chiudere gli occhi, sabotare il regime rappresentativo e ricondurre il ciclo di vita e morte nella dimensione del mistero.

La sequenza che chiude questa acuta riflessione della Baldacci, che è anche sull’immagine cinematografica stessa, è trasparente ed enigmatica allo stesso tempo: all’interno di una cornice privata dove la natura ha sfondato la finestra con l’esplosione floreale che circonda madre e figlia, la fine dell’accanimento terapeutico corrisponde alla possibile resurrezione della memoria e dello spirito, finalmente liberi dal giogo di una morte imposta ad libitum.

La Tana di Beatrice Baldacci (Italia, 2021 – 88 min)
Interpreti: Irene Vetere, Lorenzo Aloi, Hélène Nardini, Elisa Di Eusanio, Paolo Ricci (II)
Soggetto e Sceneggiatura: Edoardo Puma, Beatrice Baldacci
Fotografia: Giorgio Giannoccaro
Montaggio: Isabella Guglielmi
Musiche: Valentino Orciuolo

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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