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La vera storia di Olli Mäki di Juho Kuosmanen: la recensione

Il primo lungometraggio effettivo di Juho Kuosmanen, se si esclude “Taulukauppiaat” del 2010, film dalla durata “televisiva” di 60 minuti, è un curioso esordio: squisito azzardo metacinematografico, La vera storia di Olli Mäki strizza l’occhio a Cannes e non a caso vince il premio Un Certain Regard nell’edizione 2016 del festival.

Sia che ci si aspetti un film da collocare nella schiera già nutrita di quelli appartenenti al “genere” pugilistico, sia di trovarsi di fronte a un epigono del finlandese che ha fatto scuola, Aki Kaurismäki, si dovrà prendere atto di un incastro più complesso, che da una parte fa il verso a tutto quanto è stato detto e mostrato sulla boxe, per poi ribaltare le prospettive celebrando una poetica del disincanto. Con il maestro Kaurismäki invece instaura un rapporto critico stratificato su più livelli, radicato ben più a fondo di un trasparente citazionismo di superficie.
La Finlandia ricorda Olli Mäki come la meteora che nel 1962 attraversò la storia sportiva nazionale arrivando a competere con l’americano Davey Moore per il titolo mondiale nella categoria dei pesi piuma, titolo che perse dopo due soli round di combattimento.

 

Se di questo episodio il pubblico conserva la vergogna, per il Mäki di Kuosmanen, interpretato da un Jarrko Lahti che di concerto con il resto del cast restituisce attraverso un’interpretazione laconica le precise intenzioni del regista, si tratta di un incontro come tanti, il cui esito contribuisce a fare di quel giorno “the happiest in [his life]”. E’ la fine dell’agonia massmediatica, di ogni recita pubblica e privata, la vittoria dello sport per passione su ogni sogno di gloria calato dall’alto, la presa di coscienza dell’amore nella collezione di attimi, piccole cose. Olli e Raija fianco a fianco, via dalle luci della città.

Il bianco e nero curatissimo non è solo omaggio ad affermare un’antitesi nei confronti dei più o meno celebri ranging bulls della storia del cinema, né semplice allineamento nostalgico dell’occhio al tipo di sguardo predominante in Europa negli anni in cui si svolge il film – alla Truffaut. La scelta suggerisce anche similitudini di tono rispetto a una forma di comicità delle “origini”, che qui  diventa elemento strutturale nella sua espressione più sottile, consentendo all’autore di interporre un filtro tra sé e il soggetto.

In differita, Kuosmanen osserva arrancare divertito le proprie stesse figurine, parodico e dissacratorio certo in riferimento a tutta una tradizione con cui si relaziona per contrasto, ma in modo più velato e acuto, anche verso quelli che vorrebbero essere i suoi modelli.

Il “fornaio di Kokkola” durante una corsa sotto la pioggia in sella alla Nouvelle Vague trova memoria dell’incanto quotidiano (poco importa che la sua non l’abbia mai persa), mentre per il coach Eelis, chapliniano antagonista vittima infine del proprio arrivismo, la ruota della farsa per il successo continua a girare.

Nell’osservarli il regista mantiene uno stoico equilibrio. La purezza del primo gli dà occasione di creare squarci lirici, la cecità di fronte ai sentimenti del secondo quella di evidenziare paradossi umani.  Il modo in cui Kuosmanen saprà perderlo, l’equilibrio, sarà indice del trovarsi ora davanti a un ben fatto esercizio di stile o alla base di un percorso autoriale.

 

 

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