[perfectpullquote align=”full” bordertop=”false” cite=”” link=”” color=”#ebab09″ class=”” size=””]Sinossi: Fabienne (Catherine Deneuve) è una star del cinema francese circondata da uomini che la adorano e la ammirano. Quando pubblica la sua autobiografia, la figlia Lumir (Juliette Binoche) torna a Parigi da New York con marito (Ethan Hawke) e figlia. L’incontro tra madre e figlia si trasformerà velocemente in un confronto: le verità verranno a galla, i conti saranno sistemati, gli amori e i risentimenti confessati.[/perfectpullquote]
Nel cinema di Kore’eda i personaggi mentono spesso ma sempre ci si chiede in che modo l’autore stia dicendo la sua verità e da che direzione. Ne La veritè non sono gli attori (Deneuve è incastrata in una radiografia iconologica, Binoche nella proiezione dell’eredità generazionale, Hawke in posizione satellite) a rappresentare in scena la sincera posizione della prospettiva autoriale; non è la scrittura, con la virtualità delle sue pieghe e delle sue ombre così fitte e intrecciate, e non è nemmeno la regia, che pur si avvicina per virtù specifiche al crisma dello svelamento.
Solo un elemento linguistico comunica in pieno e con forte autocoscienza la verità pensata dal suo autore: questo unico ente che è senza latenza, cioè dice il vero perché non nasconde niente, è il montaggio, l’unico ente in realtà latente, sotteso, criptato nella messa in scena.
Il lavoro sartoriale sui raccordi permette a Kore-eda, anche in un altro linguaggio cinematografico (la commedia famigliare mediata dagli influssi francesi) e in un’altra lingua (il francese) di continuare a riflettere sulle maree comunicative delle relazioni famigliari: la verità, al solito, è che la verità è relativa.
In questo ultimo caso il montaggio però non solo rivela la posizione extra diegetica dell’autore, ma la concreta esplicitandola: prima producendo un senso forte – c’è una verità sopra le altre, una verità significante che contiene le altre – mediante continua giustapposizione di simboli contenitori di contenuti; poi relativizzando le verità emotive dei personaggi, mostrando l’atomizzazione della loro risposta emotiva di fronte al dramma. Il montaggio forma la verità – il contenitore composto dal senso forte – e il vero relativo – le realtà soggettive legate ai personaggi e istruisce sulla distanza dall’uno all’altro.
Questa riflessione non ha risoluzione particolare e per questo Kore-eda sembra girare in tondo in una microscopia teatrale che aggiunge poco al suo cinema: in realtà il processo concettuale gira a spirale, scavando in profondità dopo aver individuato la soluzione meta testuale al problema.
Se gli attori non possono dire la verità (talmente vicini alla finzione da non saperla distinguere dalla realtà), se la scrittura non vuole dirla e se la regia si occupa di empatizzare con la soggettività, enfatizzando il relativismo, il montaggio rimane l’unica scelta per dire la verità. Immagine dopo immagine, lasciandosi scomparire dentro alla forma, il cinema dice la verità quando si nega.