E se non fosse lo schermo a proteggerci nel cinema di Kechiche? La supremazia dello sguardo sostituita da una coraggiosa immersione nella “pelle” del film, con tutto il corpo, quello delle sue attrici e il nostro; un essere “del mondo” che includendo la visione come parte di una memoria sensoriale più vasta, la sposta dall’occhio al tatto.
Adele ama la lettura e si immerge nelle seicento pagine della Marianne di Marivaux, donna “sopravvissuta” che non ha più contatti con il suo mondo; si avvicina con passione bruciante all’universo di un racconto, solo se questo non viene collocato sul tavolo autoptico dell’analisi storico-critica, in quel caso perde completamente interesse, percependo l’osservazione come una messa a morte, una distanza insopportabile. Quando vede Emma per la prima volta è un’improvvisa epifania che in modo violento trasforma il suo deambulare nello spaesamento che guiderà tutte le sue azioni, un’interpretazione carnale del mondo che è, letteralmente, perdita della vista attraverso gli altri sensi.
Mentre Emma prenderà immediatamente le distanze, inquadrando Adele all’interno della cornice rappresentativa del disegno, questa le chiederà se può muoversi, per uscire da quell’immagine d’insieme che la schiaccia sullo sfondo, cercando la verità attraverso il contatto e la conoscenza carnale. Questo continuo e violentissimo slittamento dall’ottico all’aptico non è nuovo per il cineasta di origini Tunisine, ma forse per la prima volta, e dopo la prospettiva necessariamente necrofora di Venere Nera, acquisisce una complessità molto più ampia, un flusso che potrebbe tranquillamente superare il confine dei 180 minuti entro cui è relegato l’avvitamento della nostra esperienza con quella di Adele.
L’attenzione di Kechiche al mondo femminile allora, non è una questione di generi, ma un superamento degli stessi talmente radicale da generare un processo di immedesimazione che passa dalla vita del corpo senza cedere agli artifici di una psicologia “sceneggiata” per i personaggi. Non è la vista che interessa ad Adele, ma la necessità di assaggiare, il suo rapporto emotivo con il cibo, il pianto come nutrimento delle proprie secrezioni, la fortissima propensione orale; quando Emma le dirà di non amarla, non potrà far altro che leccarle una mano, mettersi in bocca tutte le dita, sentire nuovamente il sapore della pelle misto al sale delle lacrime.
È la stessa presenza fisica di Kechiche ad essere incorporata, il suo non è uno sguardo distante, ma totalmente coinvolto, una partecipazione che non si esprime semplicemente con la vicinanza della macchina da presa ai corpi, ma con un andamento nomade che unisce musica, colori, cibo della sua terra, nel flusso della vita di tutti i giorni. Più di Rym e forse con una maggiore vicinanza a Saartjie, Adele vive lo sradicamento da una realtà sociale che non si leghi alla verità sensibile dell’esperienza; la festa e il vernissage di Emma delineano ambienti non troppo dissimili dalla violenza scopica degli interni libertini di Venere Nera, dove anche Adele non può far altro che ballare o fuggire come la Soko di Augustine riacquisendo uno spazio di libertà attraverso i sensi.
In fondo, le polemiche pretestuose innescate da Léa Seydoux sui metodi coercitivi di Kechiche sono perfettamente comprensibili se si considera la forza improvvisativa di Adèle Exarchopoulos, assolutamente libera di viversi la sua Adele con una sincerità che trasforma la sua carne nella “carne” del film.