La Lady Macbeth del titolo è un riferimento a Shakespeare, anche se l’impressionante opera prima di William Oldroyd, giovane talento britannico proveniente dal teatro, non è un riadattamento della celebre tragedia di inizio Seicento, bensì di una novella russa che quando nel 1865 apparve per la prima volta, costò all’autore Nikolaj Leskov disprezzo e biasimo per la materia scottante di un amore adultero che diviene criminale. Del testo letterario di partenza, il regista sceglie di mantenere lo scheletro fondamentale della vicenda, dislocato in un contesto altro – non più la Russia, ma l’Inghilterra del Nord-est, al confine con la Scozia – e rimpolpato con un diverso finale che ne muta radicalmente la chiave di lettura.
La giovanissima Katherine viene venduta come sposa a un ricco parvenu oppresso dalla figura paterna e sessualmente represso, che la ignora, la umilia e la mortifica nel desiderio vitale. Durante un assenza di suocero e marito, la donna, annichilita dalla noia e dall’apatia, si riscopre incuriosita dagli operai della tenuta, in particolare da Sebastian, uno stalliere assunto di recente, ragazzo solido nel corpo e acceso nello sguardo. È passione travolgente, furiosa e potentemente fisica, che dischiude a lei l’accesso al piacere sessuale, ma ugualmente non ne appaga la fame, rendendola anzi ingorda e insaziabile, ricettiva al solo richiamo emotivo e ancor più, pulsionale. Per difendere il suo amore totalizzante, finisce così per architettare con la mente e compiere con le mani una serie di delitti, in una climax ascendente di cinismo e crudeltà.
Katherine è in un certo senso, come la sua quasi omonima brontiana: chiusa nella gabbia sociale, ma intimamente selvaggia e indomita, connessa con la dimensione più umorale e dionisiaca dell’essere, con il nocciolo più profondamente sensuale e primitivo dell’esistenza. Eppure, come il personaggio shakespeariano che dà nome prima al libro e poi a questo film, finisce per diventare vittima di quello che era stato il suo sottile strumento di liberazione: se in quanto donna trasparente agli occhi degli uomini, reificata e nullificata dalla loro sicumera testosteronica e capitalistica, attraverso l’abbattimento degli scrupoli, l’astuzia manipolatoria e la spavalderia esasperata, era riuscita a conquistarsi la libertà di cui era in debito, poi, da quella stessa finzione in principio salvifica resta schiacciata, alienata nell’automatismo del male e della menzogna.
‘Lady Macbeth’ è, così, la storia del breve salto di un uccellino da gabbia a gabbia, da quella d’origine, d’impostazione patriarcale e maschiocentrica, a quella d’approdo che non è tanto, come per la Thérèse Raquin di Zola, l’oppressione della colpa, ma piuttosto il carcere eterno della propria amoralità, la condanna infinita del delitto senza castigo.
Oldroyd irrompe di prepotenza nel discorso cinematografico contemporaneo con un film notevole per compattezza dell’impianto narrativo e per carisma visivo che emerge soprattutto nella fotografia rigorosa e nitida di Ari Wegner , caratterizzata da un nitore quasi ‘scandinavo’, da dipinto di Hammershøi, e nell’uso simbolicamente pregnante dei contrasti tra l’immobilità degli interni e il rumoreggiare del vento, la tempesta che squarcia le pareti domestiche che pretendono di sigillare l’esclusione femminile dal mondo ed invece, attraverso le sue crepe, lasciano entrare gli spifferi, instillano il dubbio, tentano all’insubordinazione.
Nella poetica di questo uomo di teatro che si misura per la prima volta col grande schermo c’è qualcosa della ricerca di Andrea Arnold (‘Fish Tank’, ‘Wuthering Heights’, ‘American Honey’), cineasta britannica semisconosciuta in Italia, ma di grandissimo valore, da sempre interessata a raccontare la furia e la fame della giovinezza ferita e disattesa nella promessa di felicità. L’attrice protagonista di ‘Lady Macbeth’ le piacerebbe sicuramente. È Florence Pugh, giovanissima (è nata nel 1996) e straordinaria nella parte di questa eroina nera così sfacciata e vibratile, mentre la comprimaria Naomi Ackie, nel ruolo dolente della cameriera Anna, interpreta insieme con grazia e intensità il ruolo di una coscienza ammutolita, di custode silente – letteralmente e metaforicamente – dell’orrore, di vittima sacrificale delle logiche del potere. Bravissimo anche Cosmo Jarvis, un Sebastian rozzo nell’amore e nella ferocia, che rimpicciolisce, nella statura della malvagità, di fronte alla maestosa perfezione della sua giovane amante.