giovedì, Novembre 21, 2024

L’amore bugiardo di David Fincher: la recensione

L'amore Bugiardo è un'indagine nient'affatto moralistica sulle mutazioni cognitive e identitarie che attraversano il nostro rapporto con la produzione e il consumo delle immagini, una ricognizione sulla menzogna come promessa performativa di verità. Nelle sale italiane da oggi il nuovo film di David Fincher

Shelley Turkle, in “Alone Together“, uno dei suoi testi più famosi, descrive l’intimità virtuale come una versione parodica e degradata dell’esperienza relazionale vissuta senza il filtro della tecnologia e per dimostrarlo, la nota “antropologa del cyberspace”, si serve di alcuni esempi tra cui la crescente diffusione dei robot sociali, concepiti come versioni surrogali degli animali domestici; artefatti tecnologici che assolvono la doppia funzione di esprimere un sintomo e realizzare un sogno, perché indicando una via per aggirare i propri conflitti sulla capacità di affrontare l’intimità, realizzano allo stesso tempo il desiderio di poter imbastire un rapporto ponendo dei limiti e senza un coinvolgimento emotivo troppo forte.
Torniamo a citare con sospetto la Turkle, dopo averne messo in discussione il pensiero parlando di Her, il “piccolo” film di Spike Jonze, non solo perché in “Gone Girl” compaiono in funzione apparentemente marginale, un cane e un gatto robot come segni di un inquietante “scambio simbolico”, ma sopratutto perché il cinema digitale di David Fincher si fa carico da molto tempo di un’indagine nient’affatto moralistica sulle mutazioni cognitive e identitarie che attraversano il nostro rapporto con la produzione e il consumo delle immagini, nella relazione dialettica tra sfera pubblica e dimensione privata intesa anche come decostruzione dell’identità mondana nell’espansione dello spazio digitale.

In “Gone Girl”, Amy (Rosamund Pike)  e Nick (Ben Affleck) comunicano dislocati attraverso l’interfaccia dei media, e mentre questi cannibalizzano e rilanciano la loro immagine frammentata moltiplicando gli schermi (smartphone, tablet, grandi installazioni pubblicitarie, internet e i media tradizionali) per convogliare la costruzione del racconto verso una linearità già stabilita, il luogo stesso delle interfacce, punto di intersezione tra le superfici, per parafrasare Gloria E. Anzaldúa, delinea lo spazio utile alla distruzione delle maschere così da ritrovare, “en abyme”, la verità nella simulazione.

“Svegli”, come in Eyes Wide Shut, non sentono l’urgenza vitalistica di scopare, ma interpretano i media sociali cambiando pelle e adattando le identità personali in un complesso percorso di disseminazione; segni e indizi di una detection che ha il solo scopo di sabotare le narrazioni di regime (famiglia, televisione, legge) per costruire una nuova dialettica survivalista tra mondo digitale e non digitale, coinvolgendo aspetti fisici, psicologici, sociali, individuali e collettivi, come in una performance con tutti gli elementi transmediali a portata di mano.

Amy, “la mitica”, è un personaggio che vive tra finzione e realtà, s/oggetto narrativo ad uso e consumo dei progetti editoriali famigliari, è un vampiro ontologico che assorbe tutte le ambizioni creative della giovane donna, il cui unico mezzo per sabotarne il racconto è moltiplicare le sue origini attraverso la stesura puntuale e sistematica di un diario, enunciato che slitterà progressivamente la posizione del soggetto dell’enunciazione, come se gli elementi metadiscorsivi che Fincher e la Flynn introducono nella forma di lettere, indizi, voice over, falsi flashback, contraffazioni mnestiche, fossero una manifestazione di tipo performativo, quella che Jacques Derrida descrive come connaturata alla menzogna, “una promessa di verità, anche laddove la tradisce, dal momento che mira a creare un evento, a produrre un effetto di credenza laddove non c’è nulla da accertare o quantomeno laddove nulla si esaurisce in una constatazione“.

A muovere Amy e Nick in una battaglia nel maelstrom della società connettiva è la determinazione e l’impulso, l’improvvisazione e la furia performativa che consente loro di riconfigurarne i codici, tanto che il centro del film non sono i processi induttivi e i meccanismi della detection, completamente slegati nella loro valenza segnica dal “corpo del delitto” che fino a un certo punto ha una consistenza solamente mediale, ma i gesti, le azioni, i tentativi di adattamento alla liquidità dei nuovi media, la soggettivizzazione degli oggetti che nella fenomenologia Fincheriana, sopratutto per quanto riguarda la descrizione degli interni, rappresentano lo scambio continuo tra tattile e virtuale, corpo e memoria digitale.

Il diario di Amy nega da un certo punto in poi la sua stessa essenza statutaria, evidenziando qualità intersoggettive oltre la consueta testimonianza di uno sdoppiamento, perché mentre comunica all’esterno la costruzione di un’entità altra, comunque legata ad una convergenza di desideri, smembra la linearità della narrazione convenzionale come se fosse la timeline di un profilo Facebook, fatto di segmenti performativi e sottoposto a repentine contrazioni in base ad una normatività sociale che muta secondo criteri di compiacenza o al contrario, resistenza.

A Fincher non sfuggono tutte le implicazioni legate alla cultura di genere, perché se una parte della stampa statunitense ha puntato il dito sulla presunta misantropia/misoginia isolazionista del regista americano, a saltare in aria, esattamente come nella sua versione di “The Girl with the Dragon Tattoo“, non sono solo le categorie binarie verità/menzogna, pubblico/privato, vittima/carnefice, ma la stessa politica di genere, affrontata non senza una feroce ironia, attraverso una trasduzione degli stereotipi di mascolinizzazione e femminilizzazione.

Sfumano allora quei confini tra produzione e consumo dell’immagine identitaria, esattamente come nella prassi quotidiana che ci vede tutti quanti soggetti e oggetti di una comunità digitale, dove la manipolazione della memoria aderisce, anche simultaneamente, con quella istantanea dell’impulso (o del desiderio) offrendo un nuovo significato alla relazione tra verità e menzogna, più vicine alla definizione performativa che ne dava Derrida e che ancora non ci coglie preparati quando improvvisamente modifichiamo il nostro diario, cancelliamo alcuni elementi, non ci riconosciamo più negli instagrammi prodotti il mese scorso o in un commento che ci apprestiamo a cancellare.

In senso antropologico, raccontava De Kerckhove in un’intervista per “La Stampa”, siamo tutti Pinocchio nell’era di Facebook “Pinocchio è il superamento dell’uomo sulla macchina, nasce come risultato della meccanizzazione del gesto umano, è la macchina che mente sulla nostra condizione e alla fine chiede di tornare umana [….] Nel mondo digitale cosiddetto 2.0 di oggi, dove il nostro Sé esiste solo in connessione a tutti gli altri, la problematica di Pinocchio si è moltiplicata“.

Da parte sua Nick imparerà l’arte della menzogna per costruire una verità mediatica sotto le preziose indicazioni di Tanner Bolt (Tyler Perry), il santo patrono degli uxoricidi, l’avvocato che esiste grazie ad un’amplificazione della società dello spettacolo, mentre la Detective Rhonda Boney (Kim Dickens) dichiarerà il caso chiuso in base alle regole di una società mediale più che a quelle di uno stato di diritto: “Con i riflettori puntati addosso, il caso è diventato federale, non possiamo fare più niente“.

La mutazione cognitiva a cui Fincher sembra interessato, trova un corrispettivo nel lavoro di Reznor/Ross sulle musiche e in quello fotografico di Jeff Cronenweth, un mostruoso simulacro tra glitch e romanticismo deformato per il primo e un’esasperato espressionismo digitale per il secondo, dove la luce si manifesta tra natura e artificio in una dimensione digitalizzata che illumina la Pike con le tecniche utilizzate nell’advertising o al contrario gioca con la desaturazione e la confusione percettiva dei colori (la casa marrone che è in realtà azzurra).

Ma a sorprendere in termini di scrittura è il risultato della collaborazione con Gillian Flynn, coinvolta come sceneggiatrice da quando la Fox ha opzionato i diritti del suo romanzo; oltre ad aver inserito delle differenze sensibili rispetto al bestseller, principalmente legate alla pervasività dei media, con queste continue spaccature dello spazio quotidiano che rivelano una vera e propria “mob” connettiva annidata ovunque, è il modo in cui viene rielaborato tutto l’immaginario cinematografico famigliare della fine degli anni ’80 (Joe Eszterhas, Paul Verhoeven, Adrian Lyne ma anche la scorrettezza di Danny Devito in The War of the Roses) in un contesto dove l’ubiquità dello sguardo elettronico rende apparentemente fluido e permeabile lo spazio matrimoniale, luogo di cattività, spazio illogico che cerca irrealisticamente di resistere sostituendo trasparenza con trans-apparenza.
E in quel desiderio di aprire il cranio della propria compagna, srotolarle il cervello per comprendere il mistero oltre lo sguardo c’è forse il senso di un nuovo “no trespassing”.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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