domenica, Dicembre 22, 2024

L’apocalisse è una festa – La recensione del volume di Ludovico Cantisani sul Cinema della Fine del Mondo

L'apocalisse è una festa - il cinema della fine del mondo e l'antropologia di Ernesto De Martino è il saggio di Ludovico Cantisani pubblicato da artdigiland, la nostra recensione e un'appendice dei film che includono l'idea di apocalisse, scelti dalla redazione di indie-eye

La fine del mondo o la fine del proprio mondo? Mai come adesso le riflessioni di Ernesto De Martino, confluite successivamente nel volume postumo “La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali“, possono riuscire a ferirci. Indagine sulla crisi del contemporaneo, in relazione agli strumenti culturali e simbolici a disposizione, in un confronto serrato con quelli dell’antichità. Una fenomenologia magmatica, incompiuta e travagliata che puntava al confronto tra le “specificità” culturali Europee con quelle di altre civiltà, in funzione di un possibile umanesimo etnografico. Crisi e mondo erano concetti che il grande antropologo e storico delle religioni napoletano, aveva già indagato in un testo del 1948 come “Il Mondo Magico“, dove la relazione con la tradizione si schiantava con l’idea di progresso che aveva contribuito a generare il totalitarismo nazista.  Per De Martino, la “crisi della presenza” è crisi dell’Io stesso, privato ormai di orizzonti simbolici, riemersi in forma surrogale nella distorsione totalitaria. Al di là della “fede” nella laicità socialista come possibilità alternativa, ridiscussa insieme ad altre negli appunti che lo condurranno alla stesura incompiuta de “La Fine del Mondo“, pubblicato per la prima volta nel 1977, il testo di De Martino, non così distante da alcune intuizioni di Mircea Eliade ed Elemire Zolla, ci sollecita ancora a superare gli orizzonti escatologici del cristianesimo e del comunismo, aprendosi al confronto con altre civiltà. 

Ludovico Cantisani,  giovane e talentuoso regista di origini lucane cresciuto a Roma è partito dal volume di De Martino per il suo appassionato saggio e in particolare dalla categorizzazione che l’antropologo compie di tutte le apocalittiche della storia, ricondotte ai due grandi insiemi delle apocalissi culturali e psicopatologiche. Le prime sorrette da un eschaton comune che consenta di interpretare e superare una crisi in atto, le seconde legate a quella fragilità dell’uomo rispetto al sentimento della fine, dove lo smarrimento sconvolge la psiche e conduce alla paura, al progressivo sfaldamento dalla comunità e all’accecamento dei suoi valori di riferimento. 

Il Cinema, arte del futuro o “senza futuro”, procede insieme al novecento, secolo che sovrappone l’imminente possibilità della fine con la spinta incessante verso il benessere, incorporandone le ossessioni e spesso anticipandole, anche retroattivamente. 
Cantisani ha scritto il suo saggio durante il lockdown, appoggiandosi al pensiero dell’ultimo De Martino e alla sua metodologia, per crearne una personale e trasversale attraverso un corpus filmografico eterogeneo, che cerca di rileggere il cinema del passato, anche alla luce dell’esperienza Covid che stiamo tutti vivendo. 

Quello che scrivevamo in tempi non sospetti, nel 2011, in relazione a Contagion di Steven Soderbergh era relativo alla fenomenologia del contagio messa in atto dal cineasta americano. Questa non poteva essere intesa nel suo significato di social sharing, ovvero relativa ad un contesto dove sia in gioco la trasmissione di sistemi emozionali; il film segue al contrario i processi di propagazione di testo e immagine digitali, emozioni e memorie incluse come elementi dell’informazione, nell’ipotesi che il virus sia una proliferazione più che una moltiplicazione del punto di vista. Infezione digitale che stiamo vivendo adesso, nello scellerato contributo anti-sociale dei media: una catastrofe culturale, prima ancora che epidemiologica, annunciata.

Cantisani ibrida, come scrive chiaramente, l’analisi cinematografica con l’antropologia escatologica, un tentativo tanto rischioso quanto coraggioso che senza alcun pregiudizio si serve di prodotti culturali molto diversi tra di loro, con una categorizzazione che ci aiuti a comprendere il presente, oltre gli stessi testi. 

In una nota conversazione con Cesare De Cases, De Martino diceva che la fine del mondo c’è sempre stata, “che altro vuoi che abbiano pensato gli Incas o gli Aztechi di fronte ai conquistadores spagnoli […]?  Noi possiamo dire che era la fine del loro mondo, ma che cos’è la fine del mondo se non sempre la fine del proprio mondo?“. All’interno di questa ridefinizione dei confini che per esempio il migrante in fuga conosce benissimo, in relazione ad un orizzonte che cambia velocemente di senso e precipita nell’improvvisa presenza o assenza di una terra d’approdo, c’è spazio anche per quelle che Cantisani definisce come Apocalissi Metaforiche. La fine di mondi più o meno allargati o circoscritti, dall’idea comunitaria fino al nucleo famigliare, comprende la revisione di “Apocalypse Now” di Francis Ford Coppola, “apocalisse ideologica e transnazionale“; “Apocalisse nel deserto” di Werner Herzog, questione di sguardo, condizione epistemica connaturata all’esperienza ed infine “Juste la fine du monde” di Xavier Dolan, dove la tragedia personale si intreccia con una dimensione collettiva ed infine cosmica molto più ampia. 

Ed è proprio su questo intreccio che Cantisani esamina L’escatologia di Roland Emmerich come fenomeno testuale separato dalla contingenza storica. Secondo l’autore, nel cinema del regista americano c’è un movimento opposto a quello della fantascienza statunitense degli anni cinquanta, perché il nutrimento principale è legato a quelle “narrazioni religiose sovrastoriche” che hanno consentito all’Occidente di interpretare il reale in tempo di crisi. 

La crisi della presenza, come impossibilità di trascendere la realtà mondana consente a Cantisani di elaborare la sezione Umanità come presenza. L’immaginario post-apocalittico, seguendo un percorso che procede da “L’ultimo uomo sulla terra”, il film del documentarista Ubaldo Ragona, firmato insieme a Sidney Salkow e interpretato da uno straordinario Vincent Price, per inanellare una serie di titoli a partire da “La Notte dei Morti Viventi” di Romero, “Codice Genesi” di Albert e Allen Hughes, “Il seme dell’uomo” di Marco Ferreri, uno degli esempi più ficcanti per discutere il concetto di apocalisse culturale, qui rivelatasi cinicamente senza eschaton. A Cantisani qui interessa definire da cosa nasce l’esigenza di un cinema post-apocalittico, individuando echi narrativi ad amplissimo raggio a partire dalla “peste nera” che colpì l’Europa nel 1348, ricorsi epidemiologici inclusi. 
In questo contesto l’autore offre un’ampia analisi dedicata al cinema sull’11 settembre che si muove dallo Spielberg de “La guerra dei Mondi” al Romero de “La terra dei morti viventi”, fino alla Shyamalan di “The Village”. All’interno di questo percorso nel percorso, la disamina di un topos antico, come l’apocalisse che proviene dal basso, mondo sconosciuto e viscerale che minaccia l’integrità sociale di quello in superficie. 

Questo terrore panico che precede la catabasi verso l’Ade, senza il riscatto della resurrezione, è lo stimolo che Cantisani preleva da De Martino per definire le apocalissi psicopatologiche che si traducono in una distruzione inesorabile dell’Io. “Melancholia” di Von Trier è il testo filmico affrontato per sdipanare il pessimismo cosmico dell’autore danese, apocalisse interiore che sul piano immaginale e visuale si traduce in cupio dissolvi
L’eschaton laico è una delle possibilità di uscita che Cantisani definisce attraverso alcuni film, come risultato sostitutivo alla decristianizzazione progressiva delle società occidentali. La forza dell’amore che risolve l’intreccio comunicativo e fenomenologico in “Arrival” di Villeneuve, l’accettazione della fine in “4:44 Last Day On Earth” di Abel Ferrara, la fine di un mondo che diventa nuovo inizio, nel tentativo di trasformarne i principi di sopravvivenza conosciuti in “Only Lovers left alive” di Jim Jarmush. 

Fine e nuovo inizio quindi, che Cantisani analizza soffermandosi sulle variazioni dell’archetipo cristologico, a partire dal confronto stimolante tra le saghe Alien/Terminator, passando per “I figli degli uomini” di Cuaron, fino a “Signs” di Shyamalan. 
Integrante e autonoma in questo senso, la collocazione di “Sacrificio” di Andrej Tarkovskij, a cui Cantisani riconosce quel portentoso sincretismo di segni e tradizioni, che in parte avevamo discusso con il figlio del grande regista russo all’interno di questa lunga conversazione pubblicata via podcast.

Non è meno ricca la pregnanza simbolica di “Godzilla”, anche se incorporata nell’immanenza storica. Cantisani dedica un bel capitolo ai Kaijū Eiga, contestualizzandone le influenze storiche esogene, fino alle rielaborazioni occidentali più recenti. Al centro il mostruoso come esorcismo, dove il caos originario della natura annulla nuovamente i confini tra specie e rovescia l’ordine conosciuto.

Sulla fenomenologia degli Zombi romeriani molto è stato scritto e Cantisani riassume le istanze politiche e sociologiche della quadrilogia diretta dal grande regista statunitense. Le suggestioni filosofiche di cui si serve sono i “non-luoghi di Bauman, ma anche la fine delle utopie rivoluzionarie sottoposte ad uno svuotamento di ogni orizzonte ideale a favore di un’apocalisse che promana dal basso.
Tra sguardo politico e rovesciamento della narrazione cristiana le quattro apocalissi di John Carpenter, ovvero “La cosa”, “il signore del male“, “Il seme della Follia” ed “Essi Vivono”. Il complesso intreccio di svelamento e assenza di eschaton, secondo Cantisani conduce Carpenter ad un rilancio rivoluzionario delle istanze evangeliche (Essi Vivono), come possibilità di risveglio da una fine che coincide con l’annichilimento della coscienza e della volontà, subita da un potere invisibile e pervasivo.

Esasperazione feticistica della tecnologia, trasformazione e mutazione come distruzione dei confini biologici e cognitivi conosciuti nel cinema di David Cronenberg, ma anche nell’adattamento che Tod Williams ha elaborato da “Cell”, il romanzo di Stephen King. Ciò che accumuna questi testi, l’idea che l’emersione di nuove possibilità tecnologiche sviluppino una percezione ambivalente sul loro stesso ruolo, fino alle problematizzazioni più irrazionali, vere e proprie apocalissi culturali che riassestano progressivamente i nostri orizzonti rispetto ai confini tra corpo e realtà aumentata.

La dialettica razionalità/irrazionalità viene quindi approfondita con un intero capitolo dedicato al cinema di Stanley Kubrick che incorpora piccole e grandi apocalissi.

“Watchmen”, la serie e il lavoro di Moore /Gibbons, servono a Cantisani per elaborare un discorso più ampio sulle necessità antropologiche incarnate dalle narrazioni costruite intorno all’universo dei supereroi, individuando una forma surrogale di trascendenza messianica. Trasversalmente, ciò su cui si sofferma è la relazione tra apocalisse e tempo, che gli consente di includere anche “Tenet” di Christopher Nolan, dove l’apocalisse è ridotta ad un palindromo temporale, ruminazioni quantistiche a parte.

L’Eden, come luogo impossibile da raggiungere, ma anche come istanza rivoluzionaria che attraversa un corpus filmografico che parte da “Metropolis” per arrivare a “Snowpiercer”. L’idea regolativa di un luogo che oltrepassi ogni confine cognitivo, come possibilità di trascendere un presente minaccioso. “Take Shelter” e “Contagion” vengono inseriti da Cantisani nella categoria del realismo apocalittico. Quello che interessa all’autore è comprendere come certo cinema riesca ad aggregare, anche in termini retrospettivi, tensioni, istanze e necessità, indicando in alcuni casi possibili soluzioni. Analizza in questo senso il valore simbolico assunto dal film di Soderbergh durante i mesi del primo lockdown e le necessità psicologiche di certe narrazioni, suggerendo un possibile aggiornamento delle più diffuse apocalittiche narrative.

Le sezioni conclusive del denso lavoro di Cantisani sono dedicate all’Antonioni di “Zabriskie Point” e a “Fino Alla Fine del Mondo” di Wim Wenders. Il primo, apocalisse ideologica e culturale, converge su una terribile esplosione termonucleare immaginata che distrugge i segni materiali della società dei consumi, con la visione di una catastrofe che mette insieme Marx, Freud e i Vangeli. Se Thanatos prevale su Eros, scrive Cantisani citando Alberto Moravia, la punizione è rappresentata da questa apocalisse nucleare.

Il film di Wenders invece sintetizza un numero ampio di suggestioni archetipiche sul tema del viaggio e dell’apocalisse. Da quelle millenariste alle varie raffigurazioni dell’Eden, tra cui l’immagine di un deserto mutuato dall’outback australiano e quelle oniriche che si materializzano, sinapticamente, sugli schermi.

L’appassionata analisi del film di Wenders è tra le più riuscite di tutto il volume e consente a Cantisani di fare i conti tra apocalisse e processi identitari. Identità intesa come riconoscimento del proprio ruolo, di un pieno di senso, anche in relazione alla propria fine.

E non è un caso che concluda con “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo, con quel “ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà“, celebrazione dell’apocalisse e del suo potenziale rivelatorio. Eppure Zeno è felice, come Bruce Willis alla fine di Armageddon o in sintonia con l’esplosione liberatoria in Zabriskie Point. L’apocalisse è una festa, un lasciarsi andare aspettando la fine, dimensione apotropaica o valvola di sfogo.

Ma può esser rivelata anche dalla risata cinica di Zeno Cosini, nient’affatto trionfale, collocata in una posizione annichilita e antitragica, come la staticità indotta dalla crisi epidemiologica in corso.

oppure…..

You say you want
Diamonds on a ring of gold
You say you want
Your story to remain untold
But all the promises we make
From the cradle to the grave
When all I want is you

L’apocalisse è una festa – il cinema della fine del mondo e l’antropologia di Ernesto De Martino
Autore: Ludovico Cantisani
Pagine: 225
Editore: Artdigiland
Prezzo: 18 Euro
L’apocalisse è una festa su artdigiland

Ludovico Cantisani (Roma, 2001) è filmmaker e studioso di cinema. Nel 2019 ha prodotto e diretto il cortometraggio Penelopes, patrocinato dall’Italian James Joyce Foundation, fotografato da Luciano Tovoli e presentato in anteprima a Terre di Cinema a Catania. È in preparazione il lungometraggio L’ultimo viaggio, in collaborazione con l’INDA di Siracusa. Per Artdigiland ha curato nel 2020 il volume intervista Il traditore. Raccontato dall’autore della fotografia Vladan Radovic.

APOCALISSE: LE RECENSIONI DEI FILM CURATE DALLA REDAZIONE DI INDIE-EYE (Sfoglia gli articoli correlati)

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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