Prima ancora che “L’apparition” compaia come titolo su schermo nero, ad occupare lo spazio visivo è l’immagine di una concitata azione di guerra filmata in soggettiva e osservata attraverso la cornice televisiva. Il teatro è quello siriano ed è solamente il primo dei numerosi schermi che Xavier Giannoli frappone tra la visione e l’esperienza.
Se Marguerite, il precedente film del regista francese, “spazzolava contropelo” la storia dei dispositivi di riproduzione meccanica del 900, raccontando l’occhio come se fosse un fucile e il sogno “progressivo” delle tecnologie legate alla produzione di immagini e suoni, riflesso di una terribile profezia del futuro, “L’apparizione” risponde all’ipertrofia visiva dei suoi due lavori precedenti con un rigore dolente che riflette, prima di ogni altra cosa, sul ruolo dell’accelerazione tecnologica legata ai sistemi di comunicazione entro lo spazio dell’interrelazione digitale. In “Superstar” questo aspetto era fortemente esplicito e tangibile attraverso il contrasto tra la corporeità della commedia situazionale con la moltiplicazione dei simulacri virtuali.
Le apparizioni in quel caso provenivano da una sorgente irriducibile, la cui origine si perdeva nella prassi della disseminazione, tanto da manifestarsi con la violenza di un’ineluttabile metafisica negativa.
Anche Marguerite Dumont, di fronte all’aura della sua voce, incisa sull’acetato riprodotto dal grammofono, rifiuta il proprio riflesso e l’improvviso infrangersi di una mitologia interiore sulla superficie di uno specchio triviale.
“L’apparizione” solleva questioni simili, ma con una sottigliezza maggiore legata alla ricerca della propria interiorità e alla dimensione del sacrificio. Se quest’ultimo sia simulato o meno, non ha importanza, perché mostra in ogni caso il tentativo di strappare alla realtà degli schermi virtuali, la disperata possibilità di toccarsi ed infine di rivelarsi a se stessi e al mondo.
Dopo la guerra osservata da un punto di vista domestico, Giannoli entra nella camera del giornalista Jacques Mayano (Vincent Lindon) dove il bagliore digitale del led è un riflesso di quelle stesse immagini. Sul letto l’obiettivo di una macchina fotografica coperto di sangue, quello del fotoreporter che lo affiancava nei reportage scritti per i quotidiani francesi più importanti e improvvisamente morto durante un assalto. La bara caricata sul cargo, il ricordo durante una conferenza stampa francese e tra le sue foto esposte, quella di un’icona mariana trafitta dai segni del conflitto.
Dopo questo confronto atroce con la morte, Mayano sprofonda in una crisi che non sembra avere soluzione, fino a quando non riceverà una chiamata dal Vaticano, per affiancare con il suo rigore giornalistico, l’inchiesta su una supposta apparizione della Vergine Maria in una cittadina del sudest francese. L’indagine mette al centro la diciottenne Anna (Galatéa Bellugi), veggente già oggetto di venerazione da parte dei pellegrini di mezzo mondo e sulla quale il raziocinio della verifica ecclesiastica si abbatte con l’invadenza di chi vuole sondare l’origine di un mistero con gli strumenti della scienza.
C’è una qualità quasi friedkiniana nella prima parte de “L’apparizione”, non solo per la superficie narrativa che contrappone medioriente a occidente, oltre alla relazione esplicita tra scienza e manifestazioni soprannaturali diventata un topos ricorrente, ma per il rovesciamento che Giannoli compie su alcune delle suggestioni innescate da “L’esorcista” , a partire dalla distanza fenomenologica dalla trascendenza. Questa per William peter Blatty cominciava dalla scelta dell’agnostico Friedkin e del suo “sadismo” di matrice langhiana, mentre per Giannoli diventa un elemento della scrittura che non si limita al solo personaggio interpretato da Lindon, in una continua messa in abisso di una verità nell’altra.
Non è un caso che tra le forme ricorrenti di verifica sulle quali Giannoli insiste, ci sia quella legata alla disamina dell’occhio. Su Anna il tracciamento e la scansione oculare per riconoscere eventuali alterazioni psichiche; negli areoporti e alle frontiere il riconoscimento dell’iride; sull’icona sfregiata della Vergine, gli occhi sostituiti dai fori dei proiettili; in rete, l’immediata verifica di fonti e informazioni che nell’ipotesi di avvicinarci agli altri o al cuore della verità, estendono l’ordine simbolico del linguaggio integrandolo con l’immaginario selettivo della collettività, tanto da allontanarci da qualsiasi ipotesi di realtà intesa come “presenza” nello spazio e nel tempo, a favore di una dimensione scopica alterata che per Giannoli corrisponde evidentemente con l’accecamento.
“Quale verità? Quali immagini? La verità è spesso altrove“, qualsiasi verifica determina una parte dell’insieme, come i pezzi del mosaico che Donald Sutherland restaura in “Don’t Look Now”, o il lago che si infrange nel primo episodio del “Dekalog” di Kieślowski a dispetto dei calcoli matematici sulla superficie ghiacciata, in una citazione esplicita del film di Roeg. Le piume che cadono dall’alto fino a invadere la cappella nel film di Giannoli ci hanno ricordato la cera che cade sul volto mariano nel breve film del regista polacco. Semplicemente fenomeni, la cui rilevanza empirica può diventare segno solo per un’azione della volontà con-tro l’indifferenza del reale.
Tra le meschinità umane e recondite di padre Borrodine (Patrick d’Assumçao) e quelle mediatiche di Anton Meyer (Anatole Taubman) emergono più elementi di verità attraverso l’autoallucinazione, perché nel bisogno di una rivelazione che spezzi le catene del quotidiano, anche l’impostura, sembra dirci Giannoli, può generare una spinta verso la verità se la intendiamo principalmente come atto di liberazione da se stessi.
Senza distruggere il gusto della visione, ci interessa puntualizzare che la relazione complessa e indicibile tra Anna e Mériem (Alicia Hava), la ragazza con cui la giovane veggente mantiene un misterioso rapporto epistolare fuori da qualsiasi attualità digitale, è alla base di un rovesciamento tanto sorprendente quanto centrale in tutto il cinema di Xavier Giannoli; il paradosso che le tecnologie ci consentono di vivere baratta le nozioni di tempo, spazio e Storia con la natura istantanea dell’informazione. Essere ovunque senza esserci.
Entrambe le giovani donne resistono alla predeterminazione del destino, voltando le spalle all’esistente e attivando lo scandalo della scelta. Capaci di gesti oltre la comprensione comune, invertono i parametri entro cui la dimensione spirituale viene percepita.
In questo senso, il rigore visivo di Giannoli, con una prossimità umana maggiore e per certi versi più stratificata, si avvicina allo stesso concetto di santità denudato da Bruno Dumont nel durissimo Camille Claudel 1915, originariamente intitolato La Crèatrice; un ritorno al deserto e all’obnubilazione delle immagini.
Se l’illuminazione può quindi scaturire dall’impostura, come raccontavamo in questo viaggio personale tra “altre apparizioni“, ciò che appare appartiene a quel mondo dei sogni attraversabile solo se dalla prigione della ripetizione si rinasce nella libertà del creare.
Approfondimenti
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Cold Heaven: prima de L’apparizione di Xavier Giannoli